In silenzio, con pudore, quasi temesse che la notizia potesse uscire troppo in fretta dalle pareti dello studio, da quelle di casa ovvero dai lunghi, interminabili colloqui che, da anni, intratteneva coi gessi, i calchi e i bronzi delle sue sculture, Luigi Broggini se n'è andato. Difficile sapere in questo momento, l'onore che si deve alla sua statura morale da quello che si deve alla sua statura d'artista. Ciò che ci par necessario riconoscere è che il mondo della cultura, che pure molto lo stimava, non seppe mai dargli ciò che pure ampiamente aveva meritato; in proposito, anche chi scrive si sente invaso da un amaro rimorso. E non basta certo scoprire, nella bibliografia, un testo che reca la nostra firma e la data: 1941. Da quel tempo sono passati quarantadue anni giusti, giusti…
Eppure bisognerà che la storia dell'arte, anche quella a noi più vicina, venga rivisitata; e in più di un caso riscritta; alla luce, s'intende, dei risultati e della poesia, anziché a quella delle proposioni estetiche e della fama. Proposizioni e fama che Broggini scansò. sempre, per tenersi solo e appartato; almeno dopo il grande exploit di "Corrente"; quando la sua apparizione ribaltò, nella struggente verità di una scultura che voleva aderire al corpo e all'epidermide dell'uomo e al mistero della luce, la codificazione seriale di gran parte del Nocevento.
Subito si notò in lui quel che oggi s'ha paura a chiamare col suo vero nome: il dono; e, unitamente al dono, la grazia. Un sentimento plastico che riprendendosi alle lezioni, prima di un Degas, e poi d'un Medardo Rosso, si realizzava proprio al punto in cui tutto pareva negarne le possibilità; e, in prima istanza, lo struggersi continuo della materia e del sentimento sotto il dominio della luce e dell'ombra, di cui le mani di Broggini parevano essere docilissimi tramiti e strumenti.
I suoi nudi, teneri e miracolosi come certe apparizioni alborali, i suoi cavalli, le sue ragazze, i suoi ritrattini, vivono l'attimo, altrimenti irripresentabile, dell'improvviso; che, si badi bene, è altra cosa dall'attimo dell'impressione. Esso è lo stupore pel creato e per gli esseri che colpiva la fantasia di Broggini, che gli minacciava quel suo cuore, burbero e delicato, e che lo spingeva a disegnare, a scolpire, ad incidere. Se quello stupore non appariva, Broggini se ne stava lì inerte. Ma la sua, era un'inerzia di attesa; affinché il miracolo si ripetesse; e si ripetesse come se ogni qual volta fosse la prima; ogni volta, dunque, con la levità e le promesse di un'alba nuova.
Quello stupore, quella levità e quella trepida leggerezza, che tanto erano piaciuti a grandi artisti come Giacometti, sono da collocare tra i dono più sottili e più veri che la scultura italiana moderna abbia avuto. Che ancora, nei "giri", non lo si sappia, ha poco peso. Molto, invece, ne ha che i comuni di Varese e Milano, magari per la bisogna unendo ragioni e sforzi, si ricordino di questo figlio, reale o adottivo, di questo loro solitario, sdegnoso, ma verissimo artista perché, almeno in morte, gli venga dedicata quella mostra che la sua probità d'uomo e la sua irripetibilità di poeta, con dignità ma con imperio, reclamano. E' questo il solo mezzo per degnamente ricordarlo e per risarcirlo di tutti i torti che, in vita, ebbe a subire; e per ringraziarlo del silenzio, del pudore e della continua offerta di poesia con cui, a quei torti, egli seppe rispondere.
Davvero non lo meritavamo. Ma, se Dio vuole, la poesia, almeno lei, alcune volte non risponde con la moneta che l'umana indifferenza meriterebbe; rammentandoci così che ben altre sono le monete reali.