Non sapevo nulla di Pippa Bacca.
Non sapevo di lei, né della sua performance artistica e culturale. Un progetto congiunto di pace e di arte, Brides on tour (le spose in viaggio) che doveva condurla in autostop da Milano a Gerusalemme, vestita da sposa, in compagnia di un' amica artista.
La scelta di viaggiare affidandosi all'ospitalità degli altri significava la voglia di conoscere da vicino la realtà dei tanti paesi visitati – soprattutto quella delle donne oppresse dalla guerra – e anche la dimostrazione della fiducia nel prossimo.
"Dando fiducia – aveva scritto nel suo sito d'artista – si riceve del bene"
Quando ho sentito dal telegiornale della sua morte – come tanti altri, credo – ho provato rabbia. Rabbia, sì, anche se è una parola orribile da agganciare ai sentimenti. Perché fa pensare al morso impresso nella carne dai denti di un animale incattivito e pazzo.
Ma cos'altro era se non un animale impazzito contagiato da qualche morbo, quello che ha azzannato a Gebze, in Turchia, il corpo e il cuore di Pippa Bacca, che ha cercato di infrangere il suo disegno di armonia, di spegnere il sogno sulla sua faccia allungata – mite e pallida d'un pallore lunare, un po' chagalliana – strappandole quell'eccentrico abito nuziale che l'avrebbe portata all' ideale banchetto di sposa? E dunque sì, la parola rabbia ci sta.
Ma devo confessare – con disagio, lo ammetto – un'altra rabbia. Possibile, mi sono subito chiesta, che nessuno abbia cercato di impedire quella scelta? Pippa a se stessa, la madre alla figlia, la sorella – la giovane saggia e gentile che è andata a riprendersela dopo morta – a Pippa?
L'indomani, a mente fredda, ho riflettuto: negli anni Sessanta, quando molte ragazze se ne stavano al sicuro sotto la campana prudente e soffocante della famiglia, altre coetanee iniziavano a viaggiare per l'Italia e per il mondo spinte dalla pura voglia di andare, di sfidarlo per capirlo meglio. Lo facevano in tante. E tutte ritornavano, sane e salve, più libere – a volte anche più belle – di prima.
Però – mi sono detta ancora – il giro di Pippa portava nei paesi della guerra. Il pericolo era molto più alto.
Il fatto è che non è stata la guerra a ucciderla.
L ‘ha uccisa un bruto, un folle, uno che può nascondersi come un verme in qualunque piega della terra. Assurdo, per una come Pippa. Avremmo preferito saperla morta come la Cutuli, il corpo trafitto da una pallottola. Invece è stata finita, dopo essere stata violentata, né più né meno come è successo lo scorso anno a una signora di Roma che tornava vero casa con la borsa della spesa in mano, aggredita da un rom che voleva derubarla dei suoi soldi e del suo essere donna – un'altra terra di conquista, un' altra terra d'assalto. Forse di vendetta.
Ma sembra ancora più assurda la morte di Pippa, perché Pippa aveva "quel" progetto. Era messaggera di pace e di bellezza, portatrice di speranza, era una donna forte, innamorata della vita e dell'arte, stanca della violenza di tante donne oppresse dalla guerra. Su queste cose ci aveva ragionato a lungo. Della guerra sono stanca oramai/al lavoro di un tempo tornerei/a un vestito o a qualcosa di bianco/per nascondere questa mia vocazione/al trionfo ed al pianto.
Come in un presagio, aveva fatte sue le parole di Fabrizio de Andrè, ci aveva costruito attorno il suo progetto dandogli forma con tutta l'anima e il suo corpo, che aveva rivestito di bianco, il colore della luce.
Il colore prediletto, assieme al verde di cui s'era innamorata in Irlanda.
Pippa era un'artista, e come tale si sentiva e viveva.
Ma, se andate a visitare il suo blog, vedrete che non era una sprovveduta.
Aveva segnato e pianificato ogni tappa del viaggio: Slovenia, Croazia, Bosnia, Bulgaria, e poi la Turchia, la Siria, il Libano, la Giordania, Israele e la Palestina. La partenza era avvenuta l'8 marzo, l'ultima meta l'avrebbe portata a Gerusalemme.
E non era un vestito insulso l'indumento ampio e bianco che l'avvolgeva dalla testa ai piedi, visto su tutti i giornali dopo la sua morte. Era un abito adatto al lungo viaggio, ideato da uno stilista – conquistato dalla freschezza di Pippa – che l'aveva pensato e ideato per lei: soprattutto una tela d' artista su cui raccontare incontri, viaggi, emozioni, dove altre donne, altre spose, avrebbero ricamato con le loro matasse di cotone, con le loro mani diverse, pallide d'ombra o brune di sole, immagini e pensieri.
Al ritorno Pippa avrebbe svelato quelle credenziali di tessuto impolverato, quelle pezze ricamate dalle amiche incontrate per il mondo, in una mostra finale che avrebbe coronato la sua performance. Sarebbe stato quell' abito da sposa il suo diario di viaggio, il suo carnet d' artista, offerto assieme a tante testimonianze di pace e di arte .
"Ma Pippa ha provocato" ha detto qualcuno. Lo hanno scritto in uno dei tanti messaggi inviati al blog che doveva rappresentare il luogo di raccolta di dati ed è diventato invece un infinito, commosso necrologio.
La presunta provocazione di Pippa è grossolana interpretazione di un uomo che sbaglia. E sbaglia due volte: perché crede di vedere la provocazione che non c'è, nella donna che gli sorride sul ciglio della strada. E non coglie invece la provocazione dell'artista.
Un artista – che sia uomo o donna non importa, diciamo un artista – cerca sempre di provocare.
Gli artisti che ci vivono vicino – miti e "insospettabili"- gli artisti che incontriamo magari ogni giorno e conosciamo e osserviamo nel loro lavoro sono dei provocatori.
Non è necessario pensare a Caravaggio o a Pollock o a Warhol, ma chi è artista -se è tale – provoca. Crea quotidianamente ulcerazioni nel proprio cuore e scava nei cuori di chi ne osserva le opere. Sennò non lo è. Ciò che oggi ci appare levigato e sublime, ieri agitava l'anima degli osservatori, imbestialiva i benpensanti. I ritratti di Renoir venivano irrisi, come le ninfee e i tramonti di Monet. I i girasoli di Van Gogh dispiacevano a tutti. Modigliani moriva di fame nei bistrot di Parigi perché i suoi colli lunghi suscitavano l'ilarità. I volti delle prostitute prestate alle Madonne nei quadri di Caravaggio facevano inorridire i ricchi committenti. Ma è con quei girasoli tra le mani e con quei colli smisurati, con i ritratti sghembi e irregolari, con le facce impresentabili dei loro personaggi che i più grandi artisti hanno cavato dalla disarmonia dei segni o del cuore degli uomini l'armonia dell'arte, e quella della vita e dell'universo. E' grazie a quei quadri folli e immortali se ancora oggi possiamo sperare e guardare avanti.
Non conta di meno, per impegno e intento, la performance dell'artista che usa il suo corpo come materia dell'opera d'arte o trascina la sua arte a cielo aperto, rendendola partecipe degli umori mutevoli della natura e dell'ambiente.
Dagli anni Sessanta vale ormai questa forma di arte indossata sulla carne o fissata sotto il cielo.
" Con questo tipo di performance gli artisti cercano di annullare la distanza tra l'arte e la vita. E' come se un'opera teatrale venisse riprodotta nella vita reale. E poi l'opera è irriproducibile, anche se non si esaurisce mentre avviene, perché resta la documentazione, filmata fotografica o scritta" come ha spiegato il critico Stefano Chiodi al quotidiano La Stampa.
C' è anche un valore in più nel viaggio di Pippa. Quel suo cammino, abbiamo detto, era cammino congiunto di pace e di arte. Con la somma di questi addendi nel cuore Pippa andava alla ricerca dell'armonia, ciò che ogni uomo e artista vero cerca nel proprio fare arte. Era nipote del declamato artista Piero Manzoni. Non ha profittato, Giuseppina Pasquilina di Marineo, sembra di capire, della illustre parentela, nascondendosi sotto quel nome d'arte tutto suo, dal suono semplice e ingenuo di un allegro schiocco. E ha compiuto la sua indagine di eccentrica eppure riservata artista, con la sua sensibilità, sulla sua pelle. Una ricerca lunga, dove il viaggiare equivale a vivere. Molti artisti lo fanno.
Pippa era – è – una di loro. Quanto valeva, quanto varranno anche i suoi barattoli, i "Frammenti di esistenza quotidiana", che vendeva a prezzi popolari, si saprà un giorno. Ma non è questo che importa, il suo valore più grande era in quella tenace convinzione – antica ma sempre nuova e oggi più che mai necessaria – di mettere assieme pace e arte, in quel suo sentire d'artista non disgiunto dalla fierezza dell'essere donna.
E anche per questi motivi che se una ragazza degli anni Sessanta riflette sul destino di Pippa, sulla nuvola bianca
di quell'improbabile abito da sposa che l'avvia sorridente verso il suo cupo destino, non può non chiedersi se anche la macchina del tempo è impazzita, se non sta girando all'indietro inghiottendo decenni di conquiste, come l'umanità che non la smette mai di essere in guerra contro gli inermi
Non vogliamo crederlo.
Abbiamo letto che Pippa era anche una loggionista della Scala. Amava il melodramma. Nel suo viaggio qualche volta avrà forse immaginato che ad accompagnarla fosse la voce di Tosca "Vissi d'arte, vissi d'amore".
La sua vita gioiosa ci dice che li ha conosciuti e praticati entrambi.
La sua morte, una morte inverosimile, ci lascia capire che Pippa Bacca per ora è uscita di scena. Non come un'eroina del melodramma, ma da artista vera.
Perché, a volte, così muore un artista.
E non è colpa dell'artista se non tutti lo capiscono.
Qualcuno ha ricordato in proposito la frase di Oscar Wilde: "La società perdona spesso il criminale ma non perdona mai il sognatore".