Fotografare con gli occhi pianificando – "Non c'è foto tra quelle scattate dagli esordi ad oggi", dichiara Mimmo Jodice, "che non rientri all'interno di un progetto, di un'idea stabilita prima di mettermi alla ricerca del soggetto più adatto ad esprimere il concetto, il senso di quanto pianificato. Fotografo con gli occhi, non con la macchina". Nelle poche frasi iniziali del discorso tenuto a Mendrisio, Jodice ha enucleato i cardini della sua lunga ricerca artistica, confluita nell'ultimo volume intitolato proprio come la conferenza di giovedì: "Perdersi a guardare". Il titolo individua la capacità dell'artista di saper guardare per capire, vedere, osservare, riflettere, ricordare, emozionarsi e creare immagini fuori dalla realtà. Ed è da qui che ha preso il via la storia per immagini raccontata da questo grande autore. Una storia che inizia alla fine degli anni Cinquanta, "quando la fotografia", dice l'artista, "non era considerata né un bene culturale né tanto meno un linguaggio artistico, un periodo in cui io ed altri abbiamo creduto fosse giunto il momento di riscattare quest'arte dall'inosservanza".
Analizzare il linguaggio – "Per far capire al pubblico cosa fosse la fotografia fu necessario innanzitutto interrogare me stesso sul suo significato", precisava Jodice che si esprimeva in seguito così: "da questa domanda e dalla parte finale della definizione di fotografia trovata sul vocabolario, "che serve a riprodurre fedelmente la realtà", sono sorte le mie prime indagini. Non condividevo e non condivido tuttora questa definizione, ma per smentirla avevo bisogno di sperimentare, di analizzare il linguaggio fotografico, così negli anni Sessanta ho portato avanti le sperimentazioni tecniche e linguistiche, dalle quali sono usciti i miei autoritratti, per me metafora dello sguardo, o le ipotesi di immagini per riprodurre fedelmente la realtà, fra le quali per esempio Ferrania".
Gli anni Settanta – "Ho sperimentato per almeno dieci anni, producendo una miriade di immagini, per affermare che la fotografia è arte, finché negli anni Settanta a Napoli, mia terra natale, non hanno cominciato a fiorire gallerie e mostre d'arte contemporanea, nelle quali la presenza di fotografi agli happening e alle performance di grandi artisti, come Warhol o Kosuth, era considerata fondamentale. Ma quegli anni furono straordinari soprattutto per gli eventi che misero in discussione l'ordine sociale, fonte di analisi per me che cominciai a fare una schedatura del malessere e dei comportamenti sociali, dai luoghi del lavoro alle migrazioni, dalle carceri ai manicomi, dalle periferie a un'altra forma sociale, quella dei pellegrinaggi e delle processioni, piuttosto che delle feste paesane, la religione "pagana".
I luoghi della memoria – Dopo l'uomo è la volta dello spazio, del luogo con la sua carica di simboli, miti e ricordi. E' il momento del progetto "Vedute di Napoli", del 1980, attraverso cui il celebre fotografo si misura con il tema del tempo, dello straniamento, dello smarrimento, del vuoto. E' così che vengono scattate immagini dall'intensa carica surrealista che ricordano i quadri di De Chirico e di Magritte, ed è così anche che Jodice comincia a misurarsi con l'architettura, innanzitutto con quella napoletana che parla di incomunicabilità, di negazione e di silenzio. Ma Napoli e Pompei ancor di più sono i luoghi della memoria, così ricchi di siti archeologici che rimandano a civiltà che paiono ancora vive, tanto vive da invitare il fotografo a fare un viaggio a ritroso nel tempo, "tanto lontano da fargli sfuocare appositamente le immagini, per dare l'idea di precipitare dentro la memoria", come ha precisato egli stesso durante la conferenza. Ma Napoli è stata solo il punto di partenza di un'indagine molto più ampia che si è allargata all'intero bacino del Mediterraneo, alla ricerca di antiche architetture ricche di simbologie e di arcaicità, e alle contemporaneissime città di New York, Parigi, Boston, Roma, dove l'occhio si è soffermato sul senso di inquietudine, smarrimento, sospensione temporale degli spazi fotografati nei giorni di festa o all'alba o distanti dalle tipiche mete del turismo di massa.
L'atemporalità, la sintesi e il bianco e nero – Se vari sono i progetti e i temi trattati da Jodice nel corso della sua carriera, costanti e perduranti sono certi suoi atteggiamenti nei confronti della realtà: nei suoi lavori punta alla sintesi, per accentuare l'emozione che vuol comunicare al riguardante, ma anche a immortalare spazi che, privati di qualsiasi contingenza temporale esprimano un forte senso di inquietudine, altro filo rosso di una ricerca, in cui la macchina è un semplice strumento che si frappone tra gli occhi e il mondo reale, e le foto rigorosamente in bianco e nero rappresentano una dimensione imprendibile, surreale che lascia spazio all'immaginazione, perché gli oggetti potrebbero essere verdi, rossi o di un altro colore. E allora la fotografia può considerarsi veramente uno strumento "che serve a riprodurre fedelmente la realtà"?