Fermo, il movimento statico è lì, dopo l'ingresso dei giardini di Palazzo Estense, subito prima della fontana. Una scultura scura, cavallo e cavaliere, l'atleta immortalato ancora una volta in sella. I mondiali si avvicinano e Pietro Scampini riceve l'ennesimo incarico. L'Amministrazione vuole lui, maestro della materia, che varia, elabora e restituisce con limpida consapevolezza il senso di anni di 'fare artistico' attento e costante. Un misurarsi senza timori con tecniche diverse. Un'unica linea che disegna corpo e bicicletta. Come una sottile membrana di metallo che à vita ad una forma. Un insieme che restituisce armonia, quel tutt'uno che si crea tra uomo e telaio, tra gambe e pedali, quando in volata si scende da una salita. Il ciclista, apparentemente immortale, tenace sulla sua sella quando, tenendosi attaccata a lui e alle sue gambe, la bicicletta mette tutta la sua forza per uscire in fuga, per staccarsi dal gruppo o per la volata finale. Una tensione muscolare, mentale: anima, corpo e cuore. Sotto di lui il mezzo che lo porterà fino al traguardo. Una lotta e un amore continuo, ripetuto, a volte ostile, ma indissolubile. Non un doppio, come in Valcuvia, quando Scampini elogia Binda lo scorso anno, ma l'elezione di un solo atleta che rappresenta poi la reale fine di ogni gara. Squadre, alleanze e aiuti non lasciano spazio al taglio del nastro. In quell'attimo si elegge il migliore, l'elezione dell'unicum. In questo caso un unico mondiale. L'opera di Scampini, eletta a simbolo dei mondiali di ciclismo varesini racchiude in sè quella forza, quell'attimo che abbraccia mille scene sempre uguali e sempre diverse. La gioia, il dolore, la vittoria e la sconfitta. Ancora una volta la volontà di un uomo di superare se stesso e anche la materia perde la sua fisicità e elegge, come matrici, l'attimo e la velocità.
La scultura di Scampini