Parente quasi, alla lontana, Paolo Campiglio, da anni rievoca come un segugio le vie di Lucio Fontana. Docente di storia dell'arte contemporanea presso l'Università di Pavia, autore di mostre legate all'attività del maestro, connesse ai suoi molteplici interessi sottesi, l'architettura, l'attività di ceramista, la dimensione del disegno, svariati articoli e puntualizzazioni monografiche – la prossima l'Art Dossier in uscita a novembre – Campiglio ha in effetti qualche legame se non di sangue, di famiglia allargata con l'artista. La seconda moglie del padre di Lucio si chiamava Anita Campiglio, parente appunto del Nostro. Il buen retiro ultimo a Comabbio apparteneva al nonno di Paolo.
Da qui, oltre che da una particolare predilezione per il clima effervescente del milieu milanese degli anni cinquanta, le motivazioni di una ricerca che lo ha portato a conoscere aspetti anche minuti dell'artista a partire dal suo corposo epistolario.
Campiglio, qual è l'eredità di Fontana a quarant'anni dalla morte?
"L'eredità di un grande anticipatore. Fontana ha precorso i tempi. Negli anni Cinquanta ha lavorato ed elaborato in modo da anticipare il decennio successivo. E pure negli anni Sessanta è stato in grado di prevedere il clima degli anni Settanta. L'idea che l'arte sia soprattutto l'esplicazione di un concetto, più che di una rappresentazione, un concetto che poi è svolgibile in diverse modalità, ma tale resta il succo di un'esperienza artistica. Che poi è l'idea stessa di modernità che proviene dalle Avanguardie. Fontana vi si trova dentro e la vive più degli altri. Se ne fa autorevolissimo portavoce. Questa credo sia la sua eredità principale".
Vuole dire che gli artisti di generazioni più recenti lo trovano ancora un modello di riferimento?
"Per molti versi sì. Alcuni portano il suo esempio fino all'esasperazione. Ma pensiamo a figure come Olafur Eliasson, al suo celebre "The Weather Project", presentato alla Tate Gallery: un progetto che deve molto a Fontana, alle sue nozioni di spazialità e di effetti ambientali".
Che ruolo, per gli storici dell'arte, ha avuto l'artista?
"Fondamentale. Di primissimo piano nell'arte a cavallo della metà del Novecento. Lui, Burri e Vedova sono gli unici veri protagonisti nel biennio tra i Cinquanta e i Sessanta. Ma rispetto agli altri due Fontana ha una carica di creatività che non si esaurisce. Burri e Vedova si arrestano all'informale, mentre Fontana ha in sé una nozione molto più complessa di avanguardia. Ed è questo che lo rende un riferimento per artisti come Castellani, Bonalumi, Manzoni".
Con i quali ha sempre intessuto rapporti di complicità, quasi.
"Una costante questa, ma fin dai primi anni di attività. Fontana aveva una peculiarità: come se avesse antenne che lo facevano mettere in contatto 'telepaticamente', con esponenti del modernismo. Che fossero architetti, musicisti, artisti, lui entrava in relazione con loro. Gli stessi Sassu e Leoncillo guardavano a Fontana fin dagli anni Trenta. Quando poi nel Cinquanta era già un maestro affermato, vi era tutto un gruppo con Baj, Dangelo, Dova, Crippa che ruotava intorno al suo studio, ormai un vero e proprio polo di attrazione e di riferimento".
Il rapporto con la critica come è stato?
"Più difficile che con gli artisti. Lo stesso Argan, che era uno degli imprescindibili, si curò di lui ma per molti anni in maniera distante, distaccata. Crispolti inizia a frequentare lo studio a partire dal 1958 e di seguito altri, tra cui Ballo. Ma è piuttosto lui a darsi agli altri, fino a fare da 'padrino' a giovanissimi come Piero Manzoni, Dadamaino, Castellani, Bonalumi. Una generosità concreta: spesso davvero regalava un quadro ai giovani perché anche potessero venderlo e sostenersi".
Negli ultimi anni le quotazioni del lavoro di Fontana hanno avuto una impennata. Secondo lei a cosa è dovuto?
"Occorre dire che vendeva già bene, almeno a partire dalla metà degli anni Sessanta. Quanto ai numeri recenti, certamente il lavoro svolto dalla Fondazione, l'ordine e la 'pulizia' fatta con il Catalogo Ragionato ha contribuito a limitare il problema, non da poco, delle falsificazioni. Ma il problema è più generale. Sta scomparendo il rapporto diretto tra gallerista e cliente. Il mercato è ormai dominato dalle case d'asta che operano a livello internazionale. La globalizzazione e l'internazionalizzazione della richiesta, di Fontana come di altri artisti, ha come immediata conseguenza l'impennata dei prezzi".
Torniamo al luogo di partenza. Come sono trascorsi i due anni a Comabbio?
"Sono stati anni di pace, di ricerca di pace e di tranquillità. Non solo per questioni di salute che gli avevano consigliato di stare a lontano dalla città e dallo stress, ma anche perchè ormai riteneva di avere una situazione stabile e tranquilla dal punto di vista del mercato. Ma ciò nonostante ha lavorato indefessamente fino all'ultimo giorno. Guardando al suo catalogo risulta chiaro che abbia prodotto più nel suo ultimo anno di vita che in quello precedente".
Un buen retiro, tranquillo ma prolifico.
"La dimensione del ritiro è anche quella del divertimento. Lui chiamava Comabbio, l''Albisola di Varese'. Frequenti erano i rapporti con Baj, Sangregorio, Tavernari, Guttuso. Ma soprattutto era attratto dai laboratori sperimentali dell'Euratom, come luogo, a sua volta, di contagiosa avanguardia".
Fontana ha detto tutto quello che aveva da dire, con il suo lavoro?
"Probabilmente si. Ma va sottolineato un aspetto. Forse ha ricevuto meno del dovuto. Non solo le vendite cominciano tardi, ma anche il riconoscimento della critica, specie quella straniera. Lui era in anticipo su tutti. Gli stessi ambienti spaziali al neon, avrebbe voluti realizzarli agli inizi degli anni Cinquanta, in grande, alla Biennale; non gli è stato concesso. Anche il suo gallerista, Cardazzo, uomo splendido e gallerista accorto, non ha saputo stringere legami internazionali. La prima mostra di Fontana a New York fu ne 1962. Se fosse accaduta prima probabilmente anche la sua ricerca avrebbe avuto altre accelerazioni. Lui ne era consapevole e di questo probabilmente soffriva".