Schegge d'artista – Nei boschi sulle colline di Sesto Calende, Giancarlo Sangregorio ha un deposito di marmi usati per realizzare le sue sculture.
Resistono nel trambusto del magazzino all'aperto anche due opere d'arte che, sebbene non firmate, lasciano intravedere il segno dell'artista. Statue in cui la roccia è potentemente sbozzata e resa fertile dalla traccia sulla superficie, in cui entra il reticolo dell'uomo che disegna una rete di linee che avvolgono il masso e ne umanizzano l'aspetto di pura pietra. Una di esse è un grande pezzo unico, squadrato e lavorato in superficie con coppelle che richiamano le forme primitive dei massi erratici e una retinatura di segni di scalpello che la avvolgono come una rete di sentieri esplorati e improvvisati sulla dura superficie della pietra.
A pochi passi – Lì vicino una colonna è avvolta da marmi forati che si accumulano uno sull'altro, resi sinuosi dalle linee dell'arte biomorfa di Sangregorio. Simile alle costruzioni sapientemente incastrate tipiche dello scultore, circondata da anelli di pietra, la stele si erge nel mezzo del prato, un accumulo di elementi che sembrano curvi e morbidi nonostante l'esplicita durezza. Sono valve di conchiglie, spirali di materiale pesante reso leggero dagli incastri aerei che caratterizzano le sculture: innesti che avvicinano i materiali l'uno all'altro. A Sesto c'è – dunque – un dono che Sangregorio sembra aver dimenticato ai margini.
Opere totemiche che si ergono all'aperto, che, così abbandonate, sembrano avere un nuovo significato: come di incontro casuale e disordinato per l'occasionale visitatore che passi di lì, o di innesto nella realtà dell'"en plein air", materia esposta alla materia degli elementi atmosferici.
Tornare alla terra – Pronta a ritornare terra nel ciclo lungo delle ere geologiche, qui, abbandonata a lato della strada, la scultura di Sangregorio pare assumere un nuovo significato. Lontana dalle gallerie d'arte e non inserita negli elementi della natura per caso o diletto, realmente pronta a subire la caduta delle foglie, l'assalto dell'edera ribelle, il freddo e il ghiaccio che sgretolano le montagne e lavorano insieme alla mano dello scultore per elaborare una superficie rocciosa e in definitiva vivente. Materia soggetta, come la crosta terrestre a cui è destinata a tornare, al continuo mutamento e alla consunzione portata del tempo, della lunghezza delle ere geologiche. O almeno così a noi è sembrato.