Copiata, ammirata e osannata. È lei, la famosa ex Casa del Fascio a Como, oggi sede del Comando Provinciale della Guardia di Finanza, fiore all'occhiello dell'architettura moderna lariana, e italiana, a cui la rivista Quadrante, autorevole organo della cultura architettonica razionalista, dedica nel 1936 un intero e dettagliato numero monografico. «In questo manuale», scrive Carlo Belli, «la Casa del Fascio di Como sarà la tavola logaritmica delle costruzioni del genere, il vocabolario in cui sono espresse nella forma migliore, tutte le soluzioni più esatte dei più complicati problemi. Un prontuario di bellezza, un paradigma di saggezza: un'opera completa sotto tutti i punti di vista».
Una costruzione completa, sì, ma anche molto tormentata. È il 1932: il giovane architetto Giuseppe Terragni, dopo il tentativo fallito di acquistare nel 1930 la sede del Credito Italiano per insediarvi la Casa del Fascio (i primi progetti risalgono in realtà al 1928), riceve dal Segretario federale Egidio Proserpio l'incarico di realizzare "il desiderio di tutti i fascisti della città e della provincia" nell'attuale Piazza del Popolo, dirimpetto al maestoso Duomo comasco. Ma, a causa di diversi problemi – area edificabile prestabilita insufficiente, ridefinizione della pianta e della distribuzione degli ambienti, nonché consolidamento dell'area edificabile, penalizzata da infiltrazioni e vene d'acqua – è solo nel luglio del 1933 che iniziano i lavori.
A poco a poco prende forma un enorme edificio a pianta quadrata: quasi diciassette metri di altezza e di
larghezza, alleggeriti da un gioco simmetrico di pieni e vuoti, di vetri e pilastri in cemento armato, e dall'uso innovativo di leghe e marmo bottoncino. Aborrite «l'orgia decorativa, i castelli fantasma, i quartieri coppedè, le villette dei ferrovieri, i palazzoni in stile, il falso antico e il falso moderno», Terragni ha concepito una costruzione nitida e ariosa. Un prisma candido e compatto che con le sue aperture rettangolari regala leggerezza e luminosità all'intera struttura architettonica. Passeranno quattro anni prima che l'edificio venga finalmente completato, saltando le due date – il 28 ottobre 1934 e il 24 maggio 1935 – precedentemente fissate per l'inaugurazione, a causa della "lentezza dei lavori dovuta a continue difficoltà tecniche derivanti dalla natura del progetto".
Terragni progetta e supervisiona ogni minimo particolare, compreso l'arredo, cui partecipa anche il pittore Mario Radice, con una serie di affreschi astratti andati purtroppo distrutti durante la Liberazione. Tutto il vasto e articolato programma iconografico delle decorazioni interne, che avrebbe dovuto sposarsi con il progetto – mai accettato – di alcuni pannelli fotomeccanici realizzati da Marcello Nizzoli per la facciata, riprende una narrazione di forme, scritte e immagini che si intersecano e si compenetrano mantenendo vivo il carisma del defunto Duce. È lui che con la sua presenza simbolica guida lo spettatore «attraverso l'iter storico» di questo grande movimento.