di Sergio Pesce
A Milano, presso la Pinacoteca di Brera, trovano spazio alcuni dipinti di Marco Palmezzano, autore del Rinascimento delle Romagne. Originario di Forlì, (città non distante dalle popolazioni colpite dal recente terremoto), seppe distinguersi per le sue capacità tecniche mediate grazie all’intervento del maestro Melozzo degli Ambrosi.
La vita di questo pittore si inserì nel periodo più movimentato della storia della religione in Europa, che vide la formulazione della bolla di Pio II a condanna del conciliarismo del 1460 e la preparazione della Controriforma, Consilium de emendenda Ecclesia, del 1537. Gli sviluppi politici di questi decenni non potevano esser certo ignorati nella città di Forlì che dal 1503 era entrata ufficialmente nello Stato della Chiesa.
Palmezzano che lavorò quasi esclusivamente per committenti ecclesiastici, assimilò lo spirito devoto di quel tempo esattamente come fecero altri suoi colleghi in Italia. Certamente nutriti dal nuovo entusiasmo dato dal Giubileo del 1500.
La rivoluzione che coinvolse il linguaggio figurativo nel campo della pittura a opera sopratutto di Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Giorgione, Tiziano, e che influenzò numerosi altri artisti, sembra non toccarlo, se non in modo superficiale. Egli rimase legato alla tradizione Quattrocentesca.
Nonostante questa sua scelta, egli non escluse, nei suoi lavori, l’attualità e il rinnovato pensiero cristiano del tempo. L’artista forlivese infatti si adopererà sia nella realizzazione di pale d’altare a campo unito, come si usava fare nel XVI secolo, sia in quelle composite, con predelle a più scene e lunette “figlie” della tradizione medievale.
Stilisticamente Palmezzano si mosse sempre dentro i
confini della cultura disegnativa centroitaliana. Le sue opere sono “contenitori” di figure sapientemente inserite in uno spazio misurabile, che assume quasi un significato metafisico. La prospettiva segue esattamente la tradizione italica dalla quale nacque per mano di Filippo Brunelleschi. I personaggi dipinti divengono saggi per testare la destrezza dell’autore nel ritrarre, con minuzia, ogni singolo particolare. La luce si avvolge sapientemente nel gioco chiaroscurale delle vesti che sono sempre ponderate con l’intero impianto scenico.
La tavola della Madonna in trono tra i Santi rispecchia proprio l’identità culturale dell’artista non ancora “condizionata” dall’educazione veneziana che egli ebbe solo a partire dal 1495.
Sul margine inferiore oltre alla data (1493) compare anche la firma del pittore: “MARCHUS PALMIZANUS FOROLIVIENSE FECERUNT”. La forma sgrammatica del verbo alla terza persona ha indotto a pensare che la scritta fosse apocrifa (Cavalcaselle 1886).
Difficilmente però si sarebbe potuto accettare un errore del genere da un artista che ebbe come fratello un notaio. Sull’autografia della scritta si pronunciò Calzini alla fine del XIX secolo. L’iscrizione in verità è autentica
come sembra provare il confronto con la grafia del cartiglio in mano al Battista. Quindi la forma del verbo dovrà intendersi come un pluralis maiestatis. L’artista riferendosi a se stesso utilizzò quindi la prima persona plurale e non, come di consueto quella singolare.
L’opera provenne dalla direzione del Demanio di Forlì ed entrò a far parte della Pinacoteca di Brera nel 1809.
Al centro del dipinto sopra un trono impostato ad angolo, che richiama evidentemente le forme romboidali della decorazione pavimentale, vediamo la Madonna con in braccio il Bambino benedicente. A destra e a sinistra della composizione trovano spazio quattro Santi disposti a semicerchio. Facilmente riconoscibili dai loro attributi sono: Giovanni Battista, Pietro, Domenico e Maria Maddalena. Dietro alla scena si apre un ampio paesaggio che sembra ricordare lo stile di Pinturicchio.
Vergine con i Santi Benedetto e Francesco
Dalla chiesa di San Francesco a Cotignola giunse alla Pinacoteca di Brera nel 1811 l’Incoronazione della Vergine con i santi Benedetto e Francesco. Il cartellino presente sul bordo inferiore della tavola riporta la firma dell’autore un tempo seguita dalla data, oggi illeggibile ma certamente inseribile tra il 1496 e il 1499. Ancora una volta lo stile italico si manifesta nella nitida impostazione spaziale ove intuiamo gli insegnamenti tradizionali di Melozzo degli Ambrosi. Tale opera denuncia anche il suo debito con la pittura veneta (Longhi 1914) in particolar modo con la pala Pesaro di Giovanni Bellini che Palmezzano deve aver visto lungo il suo soggiorno a Venezia nel 1495.
La composizione tripartita della struttura architettonica suggerisce una visioni per piani verticali. In quello inferiore vediamo i due santi in ginocchio e di profilo, quindi frontali l’uno all’altro. Chiaro il riferimento ai due importanti ordini monastici fondati dagli stessi. Al piano centrale vediamo la scena più importante con Maria che accoglie sul suo capo la corona dal Salvatore sotto la benedizione dello Spirito Santo raffigurato dalla colomba bianca. All’ultimo piano troviamo i due angeli suonatori che danno spazio ad un cielo indefinito.
All’interno del dipinto confluiscono due diverse scuole di pensiero che Palmezzano sintetizza grazie alla sua acuta personalità. Alla linearità derivante dagli insegnamenti di Melozzo egli fonde il colore della maniera veneta con tonalità significanti che mirano a qualificare il significato, quindi lo spazio.