Una delle figure più importanti e controverse della Venezia del Settecento è certamente quella di Pietro Edwards. Capo indiscusso della burocrazia dell’arte veneziana dagli ultimi anni della Repubblica Serenissima sino all’avvento degli austriaci.
Figlio di cattolici inglesi che emigrarono in Italia a causa delle persecuzioni, nacque a Loreto nel 1744. Nel 1752 si trasferirà a Venezia dove vi rimarrà sino al 1821. Sappiamo che si sposò con Teresa Fossati ed ebbe un figlio, Giovanni, che collaborerà con lui nei restauri. La sua formazione la deve all’Accademia. Dal 1776 occuperà il ruolo di segretario presso il Collegio dei Pittori e nel 1777 restaurerà il soffitto di Paolo Caliari (detto il Veronese) nella sala dell’Anticollegio a Palazzo Ducale. In breve tempo diventa presidente dell’Accademia, ispettore alle Pubbliche Pitture, conservatore dei Beni delle Gallerie e delegato a quelli della Corona. Cariche di responsabilità spesso in conflitto tra loro.
Nonostante la sua competenza in materia di restauro, taglia e ricuce varie tele per isolare un singolo soggetto ritratto o un paesaggio. Attività discutibile ma che va certo inquadrata nel modus operandi comune del tempo.
Le soppressioni delle corporazioni religiose, decise dal Senato veneziano nel 1768, diedero vita al periodo più buio della Serenissima, che vide la “diaspora” di molteplici oggetti d’arte, tra cui dipinti, statue, arredi di chiese e paramenti, il tutto sotto la supervisione di Edwards.
Egli, infatti, nei registri divise i capolavori provenienti da questi ordini in tre categorie distinte: per la Corona, per i musei o le chiese, e quelle da vendere.
Il suo è un lavoro scrupoloso di critica e quindi di scelta. Tali distinzioni gli servirono per propone i dipinti all’aristocrazia viennese e milanese per nobilitare le
residenze e successivamente per arricchire il catalogo della nascente Pinacoteca di Brera.
Sappiamo che imballa in prima persona Le nozze di Cana di Veronese arrivata a Parigi il 15 luglio 1798. Due giorni di festa poi celebrarono il suo ingresso nella Villa Lumière.
A descriverci lo stato d’animo del suo gesto ci pensa lo stesso Edwards che, a tal proposito, scrive di aver operato: “con profonda ma dissimulata tristezza d’animo(…)”.
La Nascita della Vergine di Vittore Carpaccio realizzata per la Scuola degli Albanesi, distinta da Edwards come opera per la Corona, venne prelevata da Eugenio Beauharnais (Vicerè del regno d’Italia) per poi cederla al conte bresciano Teodoro Lechi, oggi visibile a Bergamo preso l’Accademia Carrara. La Presentazione al Tempio e lo Sposalizio della Vergine sempre dello stesso ciclo si trovano oggi alla Pinacoteca di Brera.
Dei tre teleri che Jacopo Robusti (meglio noto come Tintoretto), realizzati per la Scuola grande di San Marco
negli anni sessanta del Cinquecento, uno si trova a Brera ed è Il ritrovamento del corpo del Santo. Successivamente, fu portata anche la Predica di San Marco in Alessandria un capolavoro di grandi dimensioni, parliamo di circa otto metri, figlio della mano di Gentile Bellini e del fratello Giovanni.
La collaborazione di Edwards con il potere francese allora imperante in laguna è confermata ancora nel 1797, ancor prima del Trattato di Campoformio, quando i commissari napoleonici notificano a Venezia la consegna di 20 dipinti e 500 manoscritti.
Tra il 1808 e il 1811 spedisce 210 dipinti a Milano. Tra i primi 88 troviamo undici dipinti di Veronese, tre di Giovani Bellini e un polittico di Dürer.
Si pensi che la vasta disponibilità di simili oggetti sul mercato dell’arte, frutto anche di questa continua dispersione compiuta da Edwards, aveva depresso in maniera netta le quotazioni, restituendo a Venezia un risultato economico pressoché fallimentare. Cosa che aggiunse la beffa al danno. La fretta dei continui trasferimenti danneggiava enormemente le opere, e cosa ancor più grave agevolava le dispersioni, come avvenne nel 1811 con i 30 dipinti destinati a Milano, uno dei quali attribuito a Girolamo Schiavone. Questi non giunsero mai a destinazione.
L’attività di vendita frenetica ci consegna oggi alcuni problemi filologici di non facile soluzione. Si pensi a tal proposito ai quattro trittici di Giovanni Bellini, un tempo ospitati nella chiesa di Santa Maria della Carità. Essi finirono divisi tra Milano e Vienna. E fu solo con una mostra presso le Gallerie dell’Accademia a Venezia, negli anni cinquanta, che si poté ricostruire l’unità compositiva dell’opera, senza peraltro sapere se il loro ordine ricostituito fosse corretto. Edwards infatti decise di non numerare le singole parti. Seguendo questa
metodologia di vendita, affidata cioè alla separazione delle singole parti dell’opera, destinate come visto, a compratori diversi, l’eventuale numero che possa permettere la corretta unità del tutto deve essergli sembrato superfluo.
I suoi elenchi e quelli dei suoi collaboratori, nati essenzialmente per compiere buoni affari, sono oggi dei contenitori di importanti informazioni sulle opere, sul valore di stima e in alcuni casi anche sulla collocazione. I registri erano divisi in sette colonne nelle quali compariva; il numero progressivo, la provenienza, le dimensioni, lo stato di conservazione, il soggetto, l’autore, e le annotazioni. Al di là del loro scopo, dobbiamo notare l’accuratezza nel creare in maniera saggia delle vere e proprie schede di catalogo.
L’agire ardito, ma al tempo stesso consono con i tempi da lui vissuti ha portato a considerare Pietro Edwards un personaggio ambiguo. Se le sue qualità di restauratore, nonostante alcune libertà nei “tagli” di tele, sono oggi pienamente accettate, diversa è la considerazione dell’uomo politico che non esitò a supportare la dispersione del patrimonio artistico della Repubblica Serenissima.