Sono parenti stretti ed entrambi fortemente interessanti – anzi, pienamente immersi – al mondo dei mass media, all'universo di cinema, tv, fotoromanzi, fumetti e rotocalchi. Sono Pop Arte ed Iperrealismo, fenomeni uniti nel tentativo di creare un realismo capace di raccontare ogni aspetto della civiltà contemporanea (compreso l'interno di un supermercato, un complesso rock o un'auto nuova fiammante), di fornire una panoramica di vera ricognizione e reportage.
E resta un fatto, specie nel dettaglio di certe immagini pubblicitarie, fotografiche o serigrafiche: la Pop Art (anche in tutte le sue declinazioni dei decenni posteriori) ha stimolato una curiosità verso certi emblemi e verso una imagerie – complessa e contraddittoria – del contemporaneo, svelando una sintomatica interferenza e un continuo travaso tra l'implosiva sfera del privato e l'assediante "vita moderna".
Ma un'opera iperrealista non è solo la riproduzione in
grande di un soggetto studiato attraverso la fotografia, ma la riproduzione di vizi e storture di una data semiotica, di un dato tempo e dei suoi abitanti. Così come la Pop Arte non è semplice documentazione ma una sorta di diario di annotazioni personali, fuse nella simultaneità dei molteplici stimoli percettivi e del ricordo.
Silvio Monti attinge ad entrambe le fonti: quello presentato a Varese è una sorta di collage consumistico, di slang metropolitano, di gigantesco e felice residuo da scaffale di supermarket. L'autore rispolvera il lavoro dal titolo "box sex and boxes" appositamente per 24 ore, in contemporanea alla presentazione del visionario cortometraggio firmato da Gigi Soldano ed interpretato da Giancarlo Ratti.
Le opere, che risalgono alla fine degli anni '70, inizi '80, sono rappresentate da scatoloni ed imballaggi riciclati, provenienti da supermarket e centri commerciali e trasformati in supporto per una pittura aggressiva,
ironica, ispirata alle icone pubblicitarie.
I risultati sono volutamente antipittorici, urtanti, ironici e fanno meditare attorno alla soglia che separa la pittura dall'oggetto, la finzione dalla realtà, più di quanto non cerchino di amalgamare gli oggetti della pittura.
Le opere immortalano per sempre l'urgenza caotica di una vita che, dalle strade come dal brusio della stampa o dai canali televisivi, rimbalza nelle case dove i segnali della civiltà di massa dettano la regia di un ritmo accellerato e confuso.
Le immagini, tratte dal felice mondo dei '70 e degli '80, si presentano come appaiono nella impastata e folgorante tiratura dei manifesti, dei rotocalchi patinati: la ripetizione seriale intensifica la presenza dell'immagine (cibo, sesso, prodotti industriali), ma al tempo stesso ne svuota i significati e ne annulla la drammaticità in un livellamento che è quello stesso della notizia televisiva e della comunicazione accerchiante e ovunque riprodotta.
Clara Castaldo
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