"Noi siamo l'America!", grida tronfio Jordan Belfort, numero uno della società borsistica che ha dato un senso alla parola speculazione. Martin Scorsese ci sbatte in faccia così l'essenza della sua ultima fatica, tappa portentosa di quell'ideale percorso che da Taxi Driver porta a Goodfellas e a Casinò, attraversa The Aviator e Gangs of New York, tocca The Departed e si sublima qui, tra le spesse (eppure virtuali) mura di Wall Street.
C'è molto di umano e di globale, in questa parabola ispirata alla (vera) figura grottesca, viziosa, attraente (seppur rivoltante) del "Lupo" che per anni ha accumulato una ricchezza immensa a spese di investitori a dir poco ingenui. Ma c'è, soprattutto, l'affresco inquietante di un'America che affonda le radici nella violenza, nella sopraffazione, nell'opportunismo e nell'eccesso. Gli Stati Uniti raccontati in quasi quarant'anni dal maestro newyorkese sono uno specchio deformato in cui tutto l'Occidente è costretto a guardarsi, confrontandosi con l'anima putrida di una cultura capace di donare occasioni, libertà e talento, ma brulicante di spettri, demoni, coscienze corrotte.
"Noi non creiamo niente", spiega con disarmante franchezza il maestro di Jordan, riportando il baricentro del racconto alla nostra drammatica attualità e a un'economia sconquassata da titoli rancidi e azioni fasulle.
Ma c'è di più. I broker che circondano il Lupo sono ben diversi dagli yuppies arroganti e arrivisti immortalati dalla Wall Street di Oliver Stone. Quella era un'America reaganiana, rampante, brillante, variopinta. Cinica ma irresistibile. Trasgressiva e conturbante. Era il post-Vietnam del regista di Platoon, ossessionato dal bellicismo complottista che cementa il potere a stelle e strisce.
Scorsese ha una visione diversa. I suoi non sono squali, ma piranhas. Jordan conduce una vita bulimica, eccessiva,
perennemente sopra le righe, al di là delle regole, un passo indietro rispetto alla morale e un passo oltre il concetto stesso di dignità. Ma a differenza di Gordon Gekko, ama circondarsi di mediocri, mezze tacche, delinquenti con poco cervello e molti peli sullo stomaco. Per lo yuppy degli anni Ottanta, il cinismo doveva accompagnarsi all'astuzia. Per il Lupo, a muovere il mondo non è il cervello, ma la fame, l'adrenalina, la velocità. Jordan si arricchisce velocemente, fa l'amore velocemente, sniffa velocemente, guida velocemente e precipita con la stessa rapidità. Le regole del gioco sono elementari: senza alcun calcolo o diabolico segreto. C'è "solo" la capacità innata di sfruttare l'altrui buona fede, calpestare le promesse, demolire gli affetti senza mai guardarsi indietro, a meno che questi non siano affini. Significativo che, ad arrestare la corsa di Jordan, prima della legge, sia la furia degli elementi (nella simbolica e provvidenziale tempesta che distrugge il panfilo, sfarzoso non-luogo che rappresenta al meglio il tirannico materialismo del protagonista).
Altrettanto significativo il fatto che l'unico scrupolo di Jordan sia quello che gli impedisce di incastrare il proprio sodale, fedele e disgustoso ingranaggio dell'abietto meccanismo da lui stesso congegnato. Paradossale cortocircuito emotivo di una personalità schizofrenica: pronta a sacrificarsi per proteggere la propria abominevole creatura. Ma incapace di simili generosità di fronte ai propri figli biologici. Ed ecco tornare, insistentemente, l'impossibilità genitoriale (basti pensare al padre di Jordan, complice delle malefatte del figlio) e l'atavica castrazione maschile che da sempre punteggia la filmografia scorsesiana.
L'autore di Cape Fear è, da sempre, ardito narratore di paternità negate, corrotte, morbose, tradite. Tema che, in "The Wolf of Wall Street", va a intrecciarsi con un altro cardine autoriale: l'impossibilità della redenzione. Esiste il delitto, esiste il castigo, ma non esiste rimorso, né pentimento né, tantomeno, perdono. Dopo aver truffato, rubato, speculato e vampirizzato migliaia di persone, Jordan viene spogliato degli averi e condannato a poco più di tre anni. Oggi, dopo aver scritto la biografica da cui il film è tratto, continua a tenere seminari, insegnando il segreto della ricchezza facile e crescendo nuove creature. Un nuovo inizio, insomma. Tabula rasa. Dove non c'è coscienza, non esiste memoria. E non esiste sconfitta.