Voglio vedere le mie montagne è la celebre frase pronunciata da Segantini sul letto di morte, allo stesso tempo questa frase rimanda anche ad un opera di Joseph Beuys.
Con questo titolo l'artista tedesco sigla infatti uno dei suoi lavori più importanti e complessi, un vero e proprio testamento, ma anche per certi versi una delle sue opere più accademiche e cattedratiche.
Alle radici romantiche di Segantini Beuys oppone la guerra, mentre all'immagine mitologica del maestro morente è sovrapposta quella di un giovane Beuys insonne.
La finestra da cui Segantini vede le sue montagne diventa la porta di un armadio da cui il ragazzo vedeva uscire un uomo nero, il paesaggio alpino corrisponde invece ad una narrazione costituita da oggetti ordinatamente disposti nello spazio e materiali poveri che rimandano alla costruzione delle fondamentali mitologie personali dell'artista.
Sullo sfondo ci sono la seconda guerra mondiale, la psicanalisi e l'antroposofia.
L'esposizione Voglio vedere le mie montagne non corre però il rischio di essere intesa come un omaggio letterale a maestri del passato, bensì al loro spirito di profanazione.
A questo spirito la mostra vuole aggiungere un nuovo strato di significati, ulteriori azioni che confermino una sorta di tradizione dell'atto profanatore e tentino, questa volta attraverso un orchestrazione collettiva, una rappresentazione trasversale e plurale del paesaggio transalpino contemporaneo.
Paesaggio che da molti secoli corrisponde ad un area di "confine espanso", in continuo processo di ridefinizione, di ritrattazione e continuamente alla ricerca di una propria precisa identità.
In tempi relativamente recenti questo privilegiato stato di irrequietezza ha facilitato l'affiorare di momenti di notevole apertura in alternanza a moti di testarda autonomia.
Voglio vedere le mie montagne si presenta quindi come un esposizione collettiva, la cui forma altro non è se non il risultato di una forma di contrattazione con il reale, un tentativo di dar luce agli aspetti latenti di una contemporaneità che ci appare divisa e fatica a trovare l'immagine di se stessa.
Nicolas Bourriaud ci insegna che "essere radicanti significa mettere in moto le proprie radici, in contesti e formati eterogenei, negando loro il potere di definire completamente la propria identità, traducendo idee, transcodificando immagini, trapiantando comportamenti, scambiando invece di imporre".
Gli artisti invitati ad intervenire in questa esposizione hanno cercato di innestare il proprio pensiero in un paesaggio da loro vissuto allo stesso tempo come familiare ed estraneo.
Molti di questi artisti sono infatti di origine italo-svizzera e il loro lavoro è permeato da questioni identitarie e antropologiche.
Voglio vedere le mie montagne nel suo insieme è il frutto di mesi di lavoro e di ricerca, del dialogo tra curatore, artisti e istituzioni coinvolte, di progettazione e attuazione di laboratori collettivi e individuali, di scambi di aneddoti e documenti, che hanno dato luogo ad una mappatura di "oggetti" tutti portatori di complessità.
I frammenti di questa esperienza condivisa, come in un'opera di traduzione, andranno a ricomporre l'immagine corale del paesaggio transalpino di oggi.
Non un paesaggio specifico, ma un paesaggio plurale, che trascende confini e che si prende gioco dello stesso concetto della spazio-temporalità.
La mostra inoltre verdà la presenza di un ricchissimo programma di attività: laboratori, workshop, dibattiti con gli artisti e conferenze, a cui seguirà un programma specifico.