Uno dei principi fondamentali della riforma liturgica proposta dal Concilio Vaticano II è stato favorire la «piena, consapevole e attiva partecipazione delle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano, "stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di sua conquista", ha diritto e dovere in forza del battesimo».
Meno di un anno dopo la promulgazione della Costituzione Sacrosanctum Concilium, la Congregatio Sacrorum pubblicava l'Istruzione Inter Oecumenici (26 settembre 1964), che nel cap. V si proponeva come dovevano essere costruite le chiese e gli altari. Tra altre disposizioni, si indicava che nelle chiese "è meglio che l'altare principale sia costruito staccato dalla parete, affinchè vi si possa facilmente girare intorno e su di esso possa avvenire la celebrazione verso il popolo".
A partire di questo momento, si può dire che l'orientazione dell'altare "verso il popolo" è diventata paradigmatica nelle celebrazioni liturgiche, fino al punto che «al cattolico praticante normale due appaiono i risultati evidenti della riforma liturgica del Concilio Vaticano II: la scomparsa della lingua latina e l'altare orientato verso il popolo. Chi leggi i testi conciliari potrà constatare con stupore che né l'una né l'altra cosa si trovano in essi in questa forma. […] Dell'orientamento dell'altare verso il popolo non si fa parola nel testo conciliare. Se ne fa parola in istruzioni posconciliari » (J. Ratzinger, "Prefazione" in U.M. LANG, Conversi ad Dominum. Zu Geschichte und Theologie der christlichen Gebetsrichtung, Einsiedeln 2003).
La Costituzione conciliare e la Istruzione Inter Oecumenici erano testi aperti, che non imponevano una soluzione determinata. Ma a livello pratico si è imposta l'opinione che afferma che soltanto l'altare versus populum esprima adeguatamente la partecipazione dei laici e l'avvicinamento comunitario al Signore proprio della celebrazione eucaristica, perché questa disposizione dell'altare fa sì che il sacerdote e la comunità siano rivolti l'uno di fronte all'altro in un rapporto dialogico fra di loro e verso Dio.
Di fronte al dibattito esistente, la Congregazione per il Culto Divino ha offerto diverse risposte negli ultimi anni. Nel 1993, un'editoriale della Rivista Notitiae segnalava: «La collocazione dell'altare "versus populum" è certo qualcosa di desiderato dalla attuale legislazione liturgica. Non è tuttavia un valore assoluto sopra ogni altro. Occorre tener conto dei casi nei quali il presbiterio non ammette una sistemazione dell'altare orientato verso il popolo». E, completando l'argomento, aggiungeva: «è più fedele al senso liturgico, in questi casi, celebrare all'altare esistente con le spalle rivolte al popolo che mantenere due altari nel medesimo presbiterio. Il principio dell'unicità dell'altare è teologicamente più importante, che la prassi di celebrare rivolti al popolo».
Tutto positivo, dunque? Purtroppo no. In questo contesto, l'Institutio Generalis alla Editio typica terza del riveduto e corretto Missale Romanum pubblicato nel 2002, al punto 299 si specifica "L'altare sia costruito staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo: la qual cosa è conveniente realizzare ovunque sia possibile".
A questa prioritaria imposizione si aggiungono le seguenti intimazioni all'art. 303: "Nelle nuove chiese si costruisca un solo altare che significhi alla comunità dei fedeli l'unico Cristo e l'unica Eucaristia della Chiesa. Nelle chiese già costruite, quando il vecchio altare è collocato in modo da rendere difficile la partecipazione del popolo e non può essere rimosso senza danneggiare il valore artistico, si costruisca un altro altare fisso, realizzato con arte e debitamente dedicato. Soltanto sopra questo altare si compiano le sacre celebrazioni. Il vecchio altare non venga ornato con particolare cura per non sottrarre l'attenzione dei fedeli dal nuovo altare."
Queste imposizioni sono recepite automaticamente dalle varie Conferenze Episcopali mondiali ed è loro dovere farlo.
Ricapitoliamo dunque il senso delle norme: nelle chiese antiche l'altare maggiore ad Deum va o rimosso o sostituito da un nuovo altare e comunque dismesso o "sconsacrato" (in tal senso sono chiarissime le norme per l'adeguamento liturgico CEI del 1996 che impongono la rimozione dall'antico altare persino delle reliquie poste sotto di esso!).
Questi due piccoli articoli del Messale attuale costituiscono la ragione fondante dell'iconoclastia che impera con furia irrazionale distruggendo e cambiando letteralmente volto a tutti i presbiteri delle chiese costruite prima del 1969, episodi di "adeguamento liturgico" che si rinnovano ogni giorno in tutte le chiese del mondo.
Nel 2007 è però accaduto un fatto totalmente nuovo. Nel mondo rinasce la sensibilità spirituale e liturgica nei riguardi della Forma Straordinaria del Rito Romano, legittimato dal Motu Proprio Summorum Pontificum. Ma, nello stesso tempo, si continuano a distruggere quegli altari che soli rendono possibile la celebrazione secondo quella forma del Rito.
E' un dato di fatto l'assoluto orrore rappresentato dalla costante distruzione e dismissione degli antichi altari delle chiese più belle del mondo. Un errore oltre che un danno sotto il profilo artistico e storico. Un errore anche per la proficua convivenza delle due forme dello stesso Rito Romano. Un autentico tradimento dell'insegnamento pratico e liturgico di Benedetto XVI.
Emblematica, nel contesto varesino, la distruzione, a suo tempo, del presbiterio nella chiesa di Sant'Antonio alla Motta.
"La vecchia veduta complessiva del coro e del presbiterio, precedente i restauri attuati nel 1967, rivela quanto pertinente fosse alla logica di quegli spazi la cesura dell'altare maggiore, sia per la funzionalità di quell'ambiente, distinto tra chiesa pubblica e sala-coro per la confraternita; sia per l'estetica giacchè quella sagoma appena frastagliata e mossa di marmi raffinati dava all'occhio ostacolo di tale sapiente entità da far divenire credibili quegli articolati ambienti dipinti sulla parete di fondo, apera ai lati su vani voltati, illuminati da una sorgente di luce ben calcolata e resa con sensibilità veramente apprezzabile. Era la siepe leopardiana al di là della quale di fingevano interminati spazi. L'attuale situazione, determinata da esigenze funzionali diverse ha brutalmente cancellato quel sapiente gioco illusionistico…" (S. Colombo, Varese vincende e protagonisti, 1977).
Senza mezzi termini bisogna ritenere che ogni adeguamento liturgico sia uno stupro tanto della coerenza architettonica dell'edificio quanto del suo contenuto spirituale. Non c'è progetto nè artista valido che possa rendere la pillola più dolce. L'ermeneutica della rottura si rivela proprio negli adeguamenti liturgici in tutta la sua efferatezza.
La migliore delle ipotesi è che l'altar maggiore venga accantonato, il suo abbandono ne costituisce la salvezza. Nei peggiori casi viene smontato e sostituito in toto con un modernissimo assetto liturgico che, posto all'interno di contesti architettonici secolari, lascia comunque un'amara considerazione: "a che pro?".