Il quale maestro Giotto, tornato da Milano, che il nostro comune ve l’aveva mandato, al servizio del signor di Milano, passò di questa vita”. Così il cronistra fiorentino Giovanni Villani ricorda un soggiorno di Giotto a Milano, successivo al ritorno da Napoli. Un periodo non lungo, che si dovrebbe fissare attorno al 1335-1336, poco prima della sua morte, avvenuta nel 1337.

L’attività nel capoluogo milanese si inserì in una fase di forte espansione economico-commerciale della città, coincidente con l’affermazione politica dei Visconti. Sia Azzone (Signore di Milano dal 1330 al 1339), sia lo zio Giovanni arcivescovo di Milano, furono sostenitori di una vera e propria riqualificazione urbanistica e artistica della città, attestata dalla contemporanea presenza di uno scultore toscano come Giovanni di Balduccio e connessa all’affermazione del proprio prestigio dinastico e istituzionale.

Di questo breve passaggio restano altissimi echi in affreschi che risentono in maniera molto forte del tardo linguaggio giottesco: su tutti la Crocifissione  che possiamo ammirare in quella che era la cappella ducale, l’attuale Chiesa di San Gottardo in Corte.

Il passaggio del Maestro, ormai anziano, e dei suoi più stretti collaboratori, determinò un’importante svolta, anche dal punto di vista tecnico, nel panorama figurativo lombardo, soprattutto in sedi più o meno direttamente legate al mecenatismo visconteo, che si protrasse oltre alla metà del Trecento con la presenza di artisti formatisi nei cantieri giotteschi, come il fiorentino Giusto de’ Menabuoi nell’abbazia umiliata di Viboldone, a pochi chilometri da Chiaravalle, e la personalità di Giovanni da Milano, attivo in Toscana nel terzo quarto del XIV secolo.

È certo però che Giotto non giunse in una terra artisticamente deserta, ma piuttosto nel bel mezzo di una risolgente attività costituita da rapporti e influenze, innestati in una tradizione figurativa locale caratterizzata dal realismo e da un gusto tutto particolare per la narrazione.

Tanto noto quanto velato di mistero, l’anonimo “Maestro della Tomba Fissiraga”, così chiamato per via dei suoi affreschi, datati attorno al 1316, che decorano la tomba di Antonio Fissiraga in San Francesco a Lodi, è certamente una tra le personalità della pittura lombarda del primo Trecento più incisive. È la sua presenza nel Battistero di san Giovanni a Varese a portare sostanziali novità, rinnovando radicalmente il panorama dell’attività pittorica locale.

Nell’area presbiteriale del Battistero varesino si concentra una ricchissima antologia di pitture eterogenee per stile, qualità e cronologia. Tra queste spicca la Madonna della Misericordia, la cui data di esecuzione cadrebbe circa venti anni prima dell’arrivo di Giotto a Milano. Gli studi di Santina Novelli sono riusciti infatti a mettere in luce committenza e datazione, grazie allo stemma (a bande scure su sfondo bianco) con il cappello cardinalizio, raffigurato accanto alla figura della Madonna e ricondotto a Luca Fieschi, giovane cardinale genovese, amico di papa Bonifacio VIII, particolarmente in vista alla corte di Avignone. L’identità del committente è confermata inoltre da due lettere papali, conservate presso gli archivi vaticani, nelle quali si fa riferimento a benefici ecclesiastici conferiti ad un canonico varesino che dovrebbe essere un familiare (“non necessariamente un consanguineo”, sottolinea la Novelli) del cardinale Fieschi. Non solo: altri documenti confermerebbero la presenza del giovane cardinale proprio negli anni Dieci del Trecento, in visita al parente Prevosto di Varese.

Sulla stessa parete di fondo del presbiterio rimangono un frammento di Crocifissione che ci permette tuttavia di cogliere il sapiente tocco del Maestro nella decorazione del perizoma leggerissimo di Cristo o nella figura di san Giovanni ai piedi della croce, e una Madonna con Bambino e San Giovanni Battista, la cui impostazione rimanda al dipinto votivo lodigiano.

Nella grande scena di un’altra Crocifissione, quella sulla parete destra dell’arcone trionfale, il pittore trova l’occasione di cimentarsi nell’azione e il racconto giunge a una carica drammatica di particolare intensità, resa tramite una minuzione e realistica passione per i dettagli.

La drammaticità di questo affresco contrasta con la ieraticità degli Apostoli e Santi della parete meridionale del presbiterio. La critica non è stata unanime nell’attribuire questa teoria al Maestro della tomba Fissiraga, ma la qualità è notevole e non pochi sono i caratteri comuni ai tratti ticipi del pittore.

Dunque un compendio di affreschi fondamentale che ci aiuta a capire come questo Maestro “girovago” in Italia abbia saputo portare a Varese precocemente il linguaggio stilistico germinato dalla Basilica Superiore di Assisi.

 

Massimo Biumi