di Filippo Brusa
Il regista del momento è Davide Livermore, classe 1966, torinese ma con origini inglesi (il nonno Roberto e il bisnonno Palmiro facevano i fantini ed erano di Newmarket – Suffolk). In teatro ha lavorato come scenografo, costumista, ballerino, sceneggiatore, attore e cantante, esibendosi anche al fianco di a Pavarotti e Domingo. Già sovrintendente del Reina Sofía di Valencia, è stato appena nominato direttore del Teatro Nazionale di Genova e, negli ultimi 12 mesi, ha avuto sempre i riflettori puntati su di sé, inaugurando, il 7 dicembre 2018, la Scala con l’Attilia di Giuseppe Verdi, mettendo poi in scena, a Siracusa, Elena di Euripide e curando di nuovo la regia della prima milanese il giorno di Sant’Ambrogio con Tosca, diretta da Riccardo Chailly.
Livermore, inaugurare la Scala per due anni di fila è toccato a pochi grandi come Luchino Visconti, Giorgio Strehler e Luca Ronconi. È un privilegio raro, che assume ancora maggior valore e risalto perché, a un anno dalla sua riuscitissima regia dell’Attila di Verdi, ora c’è Tosca, mai rappresentata nella giornata di gala del 7 dicembre. Quali sensazioni?
«È un grandissimo onore e mi dà ancora più soddisfazione poterlo fare con questa opera perfetta, straordinaria a livello di narrazione, di Giacomo Puccini, compositore capace di compiere qualcosa di unico e irripetibile: “inventare” il cinema. Nella sua musica capiamo quando ci sono i primi piani, i movimenti di carrello, si vedono gli ambienti. Pensate all’inizio dell’opera: non siamo ancora nella chiesa di Sant’Andrea della Valle ma siamo fuori, perché con, ritmo sincopato, noi vediamo un un uomo che fugge. A un certo punto s’inginocchia, poi cerca in tasca una chiave, guarda la cancellata, si volta indietro. Quanta azione…».
Che cosa l’affascina della donna Tosca, che è stata interpretata da Anna Netrebko?
«Tosca è una artista, una donna appassionata, innamorata e fedele al suo Cavaradossi (il ruolo è stato affidato a Francesco Meli) per cui rifiuta il nobile Scarpia (impersonato da Luca Salsi), uomo elegante, probabilmente bello e potentissimo, che si crede Dio in terra. Per lei la fedeltà e l’amore sono valori assoluti».
Fra l’Attila dello scorso anno e Tosca c’è stato un altro suo lavoro che è balzato sulle prime pagine, diventando l’evento teatrale più significativo del 2019: Elena di Euripide, una delle tragedie più irriverenti dell’antichità, il cui testo è stato definito «eterodosso» e «dirompente». È stato lei a insistere per riportare in scena quest’opera che non veniva rappresentata da decenni.
«Sì e l’ho fatto a Siracusa, in quel teatro che vide, più di duemila e quattrocento anni fa, la messa in scena della Elena stessa. Calcare quell’antico palcoscenico mi ha fatto vivere un’esperienza meravigliosa, a livello artistico e umano. Quel teatro è un luogo di militanza umana, dove si celebra l’uomo con tutta la sua capacità di creare arte, comunicazione, emozione e bellezza. Siracusa è un modello, allo stesso modo di Pesaro, il cui Rossini Opera Festival porta un’indotto economico considerevole alla città. Ecco, mi è bastato citare appena questi due esempi per sbugiardare quei ministri dell’economia che hanno compiuto tagli clamorosi alla cultura, dicendo che con questa non si mangia. E invece ci sono fior di studi universitari che dimostrano come un euro investito dallo Stato in un territorio sulla cultura ritorna sette volte su quel territorio».
La tragedia di Euripide spiazza tutti con un prologo che mette in discussione la celeberrima storia di Elena e l’evento a cui è legata: la guerra di Troia.
«Esatto, Euripide ci regala subito un coup de théâtre che nessuno si aspetterebbe mai. Elena si presenta dicendo: «Vi ricordate l’evento bellico più sconvolgente della storia antica, causato da me? Beh, quella che è andata a Troia non ero io, moglie di Menelao, ma un fantasma vestito di cielo» [al verso 34 è scritto «εἴδωλον ἔμπνουν οὐρανοῦ», «un fantasma dotato di respiro, fatto con un pezzo di cielo»]. Ecco, questo prologo sdogana il fatto che, molte volte, abbiamo voglia di inventarci una vita mai avuta e mai vissuta ed è bellissimo poter pensare di poterlo fare qualche volta, perché è una presa di coscienza ancora più forte di quella che è la realtà. A volte, abbiamo bisogno di raccontarci delle palle, delle frottole, delle “altre verità” per guardare da distante la nostra vita e poi riprendercela, con tutto il suo dolore».
Al verso 449, Euripide fa parlare Menelao, il non più potente re di Sparta, marito di Elena: spodestato, ridotto a un profugo coperto di stracci, bussa al palazzo di Teoclimeno, re dell’Egitto e una vecchia serva gli dice: «Non c’è posto qui per te». Menelao allora risponde: «Nαυαγὸς ἥκω ξένος, ἀσύλητον γένος», cioè «Sono naufrago, straniero e inviolabile». In questo passaggio decisivo, Euripide ribadisce con forza un principio etico fondamentale della cultura classica alle basi della civiltà occidentale: il valore sacro dell’ospitalità. Anche lei ha voluto riaffermalo nella sua messa in scena, compiendo però una forzatura sul testo originale, per ragioni legate all’attualità.
«Abbiamo pensato a una micro forzatura nella meravigliosa traduzione del professor Walter Lapini. Nel momento in cui Menelao invocava il diritto, sacro, dell’ospitalità di un naufrago, la vecchia lo guardava e diceva: «Qui da noi i porti sono chiusi». Seguiva, da parte del pubblico, un applauso di solidarietà e di contrasto potente con quello che, evidentemente, è stato uno dei momenti più bassi della Repubblica italiana. E pensare che quarant’anni fa le navi della nostra Marina Militare erano andate dall’altra del mondo per raccogliere migliaia di civili vietnamiti scappati dal regime comunista di Hanoi: uomini, anziani, donne e bambini, respinti dagli stati confinanti, aggrappati a scialuppe fradice, sbattuti tra le onde del Mar Cinese Meridionale, in preda a burrasche e pirati. Non esistono mai persone di serie A o di serie B ma solo esseri umani».
È lei il regista del momento, come dimostra anche la sua recente nomina a direttore del Teatro Nazionale di Genova, che ha suscitato però anche qualche polemica. Ci spieghi che cosa è successo.
«A Genova c’è stata una manifestazione di interesse internazionale finalizzata all’individuazione del direttore del Teatro Nazionale e il consiglio di amministrazione ha ritenuto che chi aveva partecipato a questo concorso non era in linea con i propri “desiderata”.
Ho ricevuto, pochi giorni prima della mia nomina, una telefonata, c’è stato poi un incontro a Milano con un paio di membri del consiglio di amministrazione e quello che mi hanno prospettato è di gestire una vera eccellenza italiana. Il Nazionale di Genova è il secondo teatro d’Italia nella prosa, dopo il Piccolo di Milano, ma vanta la prima scuola d’Italia, quella da cui escono i più grandi attori italiani.
Io credo che il teatro pubblico abbia la forza di cambiare la qualità della vita delle persone e io l’ho potuto verificare su di me, da ragazzo, da fruitore di teatro fatto in una certa maniera.
Poi mi sono ritrovato a gestire il Baretti di Torino, teatro che ha ridato letteralmente vita al quartiere di San Salvario, offrendo agli abitanti di quella zona critica un luogo di incontro per parlare e confrontarsi. Grazie alla cultura il quartiere è rinato anche economicamente: i ristoranti hanno ritrovato i clienti, gli appartamenti hanno raddoppiato il loro valore. La cultura paga. Eccome».