Lecco – Dopo tutto quel che ci ha fatto penare al ginnasio, non è che venga una gran voglia di andare a vedere una mostra su Manzoni allestita per di più in un Palazzo che si chiama “delle Paure”. Tranquilli, non è un altro castello dell’Innominato, “tra scheggie e macigni, erte ripide, senza strada e nude”, ma un casamento affacciato sull’argento del lago, “in stil medioevàal, però con tüti i so còmod”, come avrebbe detto Carlo Emilio Gadda. Qui, fino al 13 aprile, si può visitare la mostra “Manzoni nel cuore. Testimonianze figurative dalle collezioni private lecchesi”, una mostra rivelatrice di grandi competenze e di altrettanto grandi passioni e davvero meritevole sotto svariati aspetti. Innanzitutto perché un buon numero di “azionisti”, prendendo spunto dall’affermazione manzoniana (“Le azioni, caro mio: l’uomo si conosce dall’azioni”), ha dato la possibilità a un gruppo agguerrito di studiosi di approfondire il forte legame fra lo scrittore e Lecco, anche “a dispetto – come scrive in catalogo Gianfranco Scotti – delle sconsiderate trasformazioni del paesaggio e della scomparsa di tante testimonianze legate ai luoghi della sua ispirazione”.
Una mostra seria, senza tanti cartelli e pannelli e nessuna archistar per l’allestimento, tuttavia ben risolto nella sua sobrietà. Essa si avvia dalle vicende remote della famiglia Manzoni diventata ricca con la mercanzia del ferro e proprietaria di terre intorno al Caleotto, un severo palazzo su un’altura dominante Lecco, dove il Manzoni trascorreva in serenità le vacanze quando usciva dal collegio dei Somaschi. Con la svagatezza annoiata di un bambino di cinque anni Alessandro sta in posa in un ritratto insieme con la mamma, Giulia Beccaria, florida e fiera, con gran cappello e abito all’inglese; dipinto dall’Appiani, il pittore allora di grido, questo
quadro è argutamente fiancheggiato da quelli di due giovin signori: Pietro Manzoni, il marito di Giulia, sposato quando lui aveva quarantasei anni e lei non ancora ventitré, e il conte Giovanni Verri con cui la focosa e indipendente Giulia coltivava più di un’amicizia, e si sa come andò a finire. Di fronte, noncurante di sussurri e grida, s’impone invece Manzoni adulto in un ritratto dipinto da Giuseppe Molteni, dove egli appare ispirato e perso in profondi pensieri, fascinoso come un lord Byron.
In altra sala si fa conoscenza degli amici, lecchesi e no, dello scrittore e spiace che non si sia riusciti ad esporre a Lecco (ma c’è l’immagine sul catalogo) il ritratto di monsignor Luigi Tosi, conservato nella quadreria dei benefattori dell’Ospedale di Busto Arsizio, la sua città natale. Canonico di Sant’Ambrogio prima di essere nominato
vescovo a Pavia, il prelato, oltre che amico, fu profondamente vicino a Manzoni e all’Enrichetta Blondel sua prima moglie, quando, ritrovata la fede, da Parigi tornarono a vivere a Milano.
Quasi tutto quel che è esposto al Palazzo delle Paure proviene da collezionisti lecchesi che hanno concesso le opere gelosamente custodite nelle loro case permettendo così di farle conoscere, e ammirare. Ecco dunque disegni originali del Previati e acquerelli di Giacomo Mantegazza destinati a illustrare edizioni pregiate dei Promessi Sposi o, a documentare l’accesa fortuna iconografica del romanzo nel territorio, ben diciotto tarsie lignee con i suoi episodi salienti, e fin gustosissimi cartoni coi personaggi più conosciuti, dipinti a decoro di porte o ante di mobili. Incomparabile la ricca sfilata delle vedute di “quel ramo del lago di Como…” o
dei monti sorgenti dall’acque e “del cielo di Lombardia così bello quand’è bello…”: a dipingerle pittori del Grand-Tour e il Bossoli e il Canella, il talentoso lecchese Carlo Pizzi, e il suo maestro Fasanotti fino a un “Pescarenico” fermato da Filippo Carcano in serena pacatezza e atmosferiche dissolvenze.
Se Manzoni non fu tanto appassionato alla musica e al melodramma e proprio non si riesce a immaginarlo in un palco della Scala (magari più nel ridotto, intento al gioco), a mettere in musica il suo capolavoro pensarono due compositori che con Lecco ebbero assidua famigliarità: Antonio Ghislanzoni, sì proprio l’autore del libretto dell’ “Aida”, nato nella frazione di Barco, che ne scrisse uno facendolo musicare da Errico Petrella, ospite, anche se a salato pagamento, al Caleotto ormai però non più dei Manzoni, e Amilcare Ponchielli che per la villeggiatura aveva scelto Maggianico. Gli scrupolosi curatori hanno voluto che alla mostra
arrivasse per l’occasione anche il pianoforte di buona marca viennese su cui Petrella, conclusa l’opera, appose una memore scritta e la sua firma. Se a veder la mostra si va di sabato, a piacevolissimo coronamento può capitare di ascoltare un concerto: non, per carità, tutti e quattro gli atti dei Promessi Sposi di Petrella o di Ponchielli, ma loro gradevoli brani per pianoforte e anche uno spettacolare “Grand Valse de bravura” (sic) di Italo Gomes, compositore brasiliano ma con villa anche lui a Maggianico.
Dopo tocca solo il ritorno sulla Valassina e tra code e semafori vien fin il pensiero di andare a cercare in solaio il consunto volume del ginnasio con i Promessi Sposi e il commento del Russo: per riprenderli in mano e leggere anche quei capitoli dopo il trentesimo allora proprio grevi, ma oggi di bruciante attualità.
Giuseppe Pacciarotti