Del tono e della misura con cui Nino Pedretti (Santarcangelo 1923 – Rimini 1981) arriva alla poesia dialettale romagnola, o meglio santarcangiolese, lo esplicita la postfazione dell’amico poeta Raffaello Baldini nel volume “Al Vòusi e altre poesie in dialetto romagnolo” (Einaudi pp. 227 Euro 16) a cura di Manuela Ricci e Dante Isella.
Contrariamente a chi nasceva negli anni ’20 in quel di Santacangelo, dove il parlare quotidiano viveva solo di cadenze dialettali, “La prima lingua per Nino, invece, è stato l’italiano. Il babbo e la mamma erano due intellettuali, la mamma era maestra…il padre era un appassionato di storia locale, scriveva libri e articoli…e anche lui sia in casa che fuori parlava in italiano”, chiarisce Baldini.
Pedretti impara il dialetto per strada giocando con i coetanei e più avanti in gioventù rapportandosi quotidianamente con le persone nelle piazze, nei negozi, nelle osterie.
E’ questa macerata percorrenza a venare la poesia di Pedretti di una disperazione e rabbia di fondo, sottile come una lama di rasoio e forse mai volutamente risolta.
Un continuo “Male oscuro” per dirla alla Giuseppe Berto che si dilata nell’intimità del poeta sino a sfociare in ambito sociale e politico.
E la rabbia si alimenta nel momento in cui è chiamato alle armi a Trieste nel 1942, da li fugge in seguito agli avvenimenti dell’8 settembre del ’43 per rifugiarsi a San marino al fine di non essere perseguitato dagli ultimi rigurgiti fascisti.
A guerra finita riprende gli studi conseguendo il diploma di maestro e in seguito la laurea in lingue straniere all’Università di Urbino nel 1953 con una tesi sul jazz.
Successivamente, per un breve periodo, si trasferisce in Germania e rientrato in Italia insegna lingua inglese nei licei di Cesena e Pesaro.
E’ del 1975 la prima pubblicazione di poesie in dialetto romagnolo.
Gli strascichi del ventennio nero e del conflitto mondiale vengono definiti ne “La Guèra” cruda testimonianza delle violenze commesse dai fascisti e dalla gestapo sui civili, mentre ne “I Partigiani” Pedretti chiarisce la distanza tra gli oppressori e chi lottava per la democrazia.
Se per i fascisti violenza e sopraffazione nei confronti di chiunque non condivideva i loro dettati era regola connaturata altresì aderire alla lotta di Resistenza significava rinunciare alla propria naturale quotidianità, facendosi violenza nell’imbracciare le armi.
E ancora il poeta, con fermezza, non disgiunta da profonda umanità, sottolinea le distanze: un partigiano era una persona degna di tale definizione, un fascista un burattino agli ordini di un dittatore.
Nino Pedretti – “Al vòusi e altre poesie romagnole” – Giulio Einaudi Editore, pp.227, euro 16.
Mauro Bianchini