Eccolo il Francesco Marelli in una fotografia spuntata fuori da un libro rimasto chiuso per chissà quanto tempo. Sul retro una data: “18 aprile 1997” e l’indicazione di un luogo: “Civate”, raggiunto – mi ricordo – dopo un lungo cammino con i cagnareschi allievi dell’Artistico in gita “culturale”. É lì e già ha indosso qualcosa di rosso, la barba è però ancora nera e non lunga come ora, sempre il suo sguardo che trasmette simpatia e limpidità di pensiero.
Da quanti anni conosco Francesco Marelli? Da tanti e forse è davvero arrivato il momento di scrivere, per quel che son capace, di lui e dei lavori che crea per i quali mi è sempre venuto da ripetere solo, ma con la più schietta semplicità: “che belli!” o “che bellezza!”.
Non so in quale casella degli odierni, svariati fare artistici si possa sistemare Francesco, né mi interessa saperlo. So solo che ogni sua opera è per me una sorpresa repentina e insolita, una fantasia divagante, un “gioco” di apparente semplicità che diventa subito complesso, al quale siamo invitati, fors’anche trascinati, a partecipare per trovarvi rimembranze, emozioni e suggestioni perdute o, forse, mai vissute.
Sono opere trasgressive? Si forse, “ma con juicio” direbbe Manzoni, perché queste invenzioni di qualità hanno un punto di partenza semplice, conosciuto, ma da questo, che diventa la sua forza, Marelli sa trarre, perfetto creatore-artigiano, forme affondate in un mondo immaginario che vuole far breccia a chi sta davanti per fare intendere un universo autentico e semplice nel quale vale la pena di vivere.
Ho sempre pensato che Marelli sarebbe piaciuto alla congrega degli Scapigliati che vi avrebbero trovato la stessa vena trasgressiva e alternativa che li distingueva dai paludati maestri di Brera, l’Accademia che Francesco ha doverosamente frequentato venendo giù col pullman della Stie da San Lorenzo di Parabiago fino ai palazzoni della grande città. Invece della “Milano da bere” a lui piaceva però l’universo pittoresco e ancora umano delle ultime case di ringhiera e delle osterie affacciate sulle acque pigre dei Navigli dove poteva ascoltare i canti in dialetto, ora nostalgici, ora ironici, intonati da qualche vecchietto. Se ne appropriò con giovanile ardore e diventò un novello Barbapedana, anche lui con lo sguardo bonariamente familiare e il cappello duro tipo Borsalino. Anche in questo campo Francesco si è rivelato impareggiabile e ascoltare le canzoni della ligéra come le sa proporre è vivere serate incomparabili, di quelle che non si vorrebbe finissero mai.
Davvero un artista a tutto tondo Marelli bravo, come gli Scapigliati di cui sopra, a frequentare diverse espressioni artistiche (io aggiungerei almeno la poesia…) sempre vivendole senza pregiudizi e sempre con fresca immaginazione. Ogni sua mostra è stata, ed è, come una scossa elettrica, una nuova, imprevista sollecitazione. Fu già così quando variava sul tema delle macchine da tortura che comunque non facevano paura, ed è così quando, con un lavorio su stoffe, fili e tessuti sapientemente e amorevolmente connessi, trasforma in forme e oggetti dell’immaginario le spolette, le fusarole e le navette in uso tempo fa nelle tessiture del suo paese. La sua accesa creatività non si ferma proprio mai e le forme di questi oggetti senza apparente significato diventano altro, addirittura vascelli, anche se Wagner qui non c’entra. Infatti Marelli con arguto sorriso li rappresenta come fossero barconi del Naviglio mentre il nero fantasma (o tre addirittura) vi ondeggia sopra come in una pantomima di attori improvvisati.
Fili, stoffe e tessuti impalpabili sono, soprattutto dopo il recente soggiorno in India da dove ha riportato tinte accese e fresche, i protagonisti degli ultimi lavori ispirati dai “giacigli”, possesso prezioso e geloso dell’uomo che li srotola per stendersi, sentirsi più libero e leggero e, in agognata solitudine, far correre i pensieri. Hanno colori vividi, “offerti dalle erbe e piante. Il giallo della curcuma domina sopra gli altri. Il rosso della cipolla, del sambuco o dei cavoli…” specifica puntuale Francesco.
Chi su uno di questi non vorrebbe sdraiarsi? Mi metto in coda, ma vorrei essere il primo.
Giuseppe Pacciarotti