"Artista è solo chi trova da una soluzione un'enigma". Se lo porta nel taschino, Aldo Ambrosini, questo aforisma di Karl Krauss. Per lui, altro vecchio leone dell'arte varesina, giunto quasi alla soglia dei settanta, non dimostrati, e assolutamente stemperati nella pratica quotidiana davanti ai colori, difficile dire quale sia l'enigma. Forse ancora il canone irraggiungibile della bellezza, di un giusto ritmo, di un modello che, valido ieri, oggi è drammaticamente fuori moda e fuori contesto.
Da dove viene il tuo lavoro, da cosa parte?
"Dall'espressionismo astratto, sicuramente. Da Franz Kline, da De Kooning, da Rothko, da Jules Bissier. Ma anche in parte da Schifano e dalla Pop Art. Da giovane il gesto di Franz Kline per me era un qualcosa di monumentale, era l'idea del gesto liberatorio. Ho imparato a conoscerli grazie ad alcuni insegnanti antiaccademici che ci aprivano all'arte astratta; ma non a quella razionale, ma a quella che, europea o americana, aveva in comune un origine quasi orientale, di pienezza sensoriale".
Cosa ti ricordi in particolare di quel clima all'inizio degli anni sessanta?
"Se volevi essere moderno dovevi disprezzare il Novecento italiano, inteso come buona pittura classica, Carrà piuttosto che Sironi, che oggi al contario ritengo tra i più grandi artisti del secolo. Vivevamo piuttosto di altri miti che poi con il tempo si sono ridimensionati se non crollati del tutto".
Già da quel periodo però ti sei accostato alla figura.
"Attraverso la Pop Art e attraverso Schifano che in Italia arrivava sempre prima di tutti gli altri con le novità d'oltreoceano. Per noi fu la possibilità di reimpostare un discorso figurativo, secondo i dettami della 'Nuova figurazione': utilizzare l'oggetto in senso metalinguisitico e non come i 'neofigurativi' che volevano invece riprendere una tradizionale pittura della realtà. Lavorando sulla figura, in particolare, con il tempo mi sono reso conto, che l'oggetto, la forma umana non erano più pretesti linguistici, ma il contenuto vero e unico del mio lavoro".
E hai maturato questo stile complesso, fatto di misura e casualità.
"Ho guardato al Quattrocento, al Cinquecento. Ho rimesso in campo la centralità dell'uomo. Ma credo che la mia pittura sia un ossimoro: avverto l'eredità dell'actiong painting e insieme il fascino fortissimo della pittura vascolare. In questo contrasto, in questo scontro cerco di muovermi".
Perchè la pittura vascolare?
"Perchè è una pittura fragile, che può rompersi. Mi piace la pittura modesta. Io uso solo carta velina che è estramamente delicata, umile, ma senza che venga meno la poesia. Ho cominciato ad utilizzarla cercando superfici che reagissero in maniera differente ai colori, al mio modo di dipingere poi ho capito che questo fragilità è proprio il significante del mio lavoro. Poi certo c'è l'aspetto formale della pittura, ma è quella la scelta fondamentale".
Da tanto tempo prosegui il tuo lavoro. Cos'è cambiato nel tuo approccio?
"Quello che non cambia è il desiderio di un 'parlar modesto', senza pulpiti o balconi. E' cambiato invece il sentimento. Ero più lirico anni fa, adesso mi rendo conto di essere più incattivito; ho perso quasi interesse per il colore, adesso bianco e nero".
Cosa intendi per parlar modesto?
"Penso ad epoche in cui l'arte poteva affermare declamando le proprie certezze e quella della società. Adesso stiamo rimettendo in discussione qualsiasi cosa, domina l'incertezza. L'arte non può più pretendere di avere una voce stentorea".
Secondo te l'artista ha un ruolo ben preciso nella società?
"Un ruolo…E' la società che ti impone un ruolo e te lo toglie. Sono convinto che la categoria dell'artista sia tra quelle da salvare perché forse in grado di prendere coscienza delle contraddizioni e delle criticità".
Ma sei convinto che l'artista sia ancora in grado di parlare alla società o sia non solo un parlar modesto ma anche al vento?
"Il momento è difficile. L'impressione è quella di muoversi come i primi cristiani nelle catacombe, come carbonari. Alla luce del sole è difficile che l'artista riesca ad aprir bocca. I vincitori adesso sono quelli che determinano le economie, nemmeno i politici".
Perchè dipingi ancora?
"Perchè si diventa monomaniaci, è quasi una dipendenza. Non la sento più come vocazione, quasi messianica, neanche per 'generosità'. Solo che dà ancora un senso alla mia vita".
Con una voglia uguale?
"Anzi, la voglia cresce. Più invecchio e più mi piace e mi diverto. Da giovane hai ambizioni, vivevo questo mestiere anche come un sacrificio e come una fatica anche fisica. Con gli anni e la pratica diventa tutto più lieve. Adesso per me non lavorare alla domenica, per esempio, è frustrante".
E' stato un limite stare tutta la vita in provincia?
"Non è un limite alla possibilità della mente, ma certo chi come me ha sempre vissuto a Varese o in altri situazioni simili ha avuto molte poche possibilità di frequentazioni, sia con artisti che con possibili acquirenti del tuo lavoro".
Che differenza vedi tra il clima dei vostri anni giovanili e quello attuale?
"Da giovani ci sentivamo parte di qualcosa, di un qualcosa in movimento, una quasi avanguardia, un po' osteggiata dai grandi vecchi della pittura varesina. Ma ammetto che io per primo ho scelto di fare il cane sciolto. Certi aspetti dell'avanguardia li trovavo superficiali e artificiali, che in parte mi scandalizzavano. Però forse c'era più attenzione agli artisti da parte delle istituzioni. Adesso, ad esempio, trovo giusto che anche come Associazione dei Liberi Artisti si facciano queste iniziative, sia collegiali che singole. Una specie di censimento. Un prendere atto della nostra presenza. Mi pare iniquo che un assessore che si occupi di politica culturale a livello locale non conosca gli artisti del suo territorio".
Cosa cerchi sovrapponendo le carte veline per far emergere le tue figure?
"Forse la bellezza perduta, la bellezza classica che è sempre un fondamento della nostra sensibilità e della nostra percezione. La bellezza e l'eros".
Ambrosini, La Rosa, Scamarcia, Uboldi
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Inaugurazione sabato 16 febbraio 2008 ore 16
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