Triennale di Milano
In poco più di un mese circa duecentomila visitatori. E non c'è da stupirsi visto che stiamo parlando del nuovo Museo del Novecento all'Arengario, nel cuore di Milano; un luogo nel quale si vuole raccontare, attraverso i nomi dei grandi protagonisti dell'arte, la vicenda creativa e il percorso travagliato ma ricchissimo del secolo che ci siamo lasciati alle spalle. L'obiettivo, come si legge anche negli intenti pubblicati dalla neonata istituzione museale, è quello di: "Diffondere la conoscenza dell'arte del Novecento per generare pluralità di visioni e capacità critica. Conservare, studiare e promuovere il patrimonio pubblico e la cultura artistica del XX secolo tramite ricerca e attività didattica".
E ad un certo punto del percorso museale, i visitatori si fermano incantati, stanno qualche minuto con il naso all'insù a fissare le spirali luminose di Fontana, l'arabesco fluorescente dove il segno si fa energia e luce. Uno degli spazi più suggestivi è proprio quello illuminato dalla Struttura al Neon realizzata nel 1951 per la IX edizione della Triennale di Milano. Ma a cercar bene, a scavare tra le carte e tra le fotografie del varesino archivio Tavernari, si scopre che nell'allestimento originale, in quel lontano 1951, nel vestibolo al termine dello scalone d'onore (dovuti alla libertà di Luciano Baldessari con la collaborazione di Marcello Grisotti), compariva un dipinto di Bruno Cassinari contro il quale si stagliava – quasi per contrasto – una grande scultura in gesso di Vittorio Tavernari, vissuto e morto a Varese nel 1987.
All'indomani dell'apertura al pubblico, le riviste,
quella di Cassinari
accalorate ed emozionate come sempre accade quando si vive a ridosso delle rivoluzioni culturali ed artistiche, segnalavano l'opera di Tavernari come "un masso, un grumo che preme e invade l'affresco di Cassinari… Dove invece l'incontro si fonde è nello scalone, tutti quei viola e grigi e bianchi e il fresco colore marino del pannello di Ajmone e la ceramica (come un simbolo zodiacale) di Antonia Campi e il ghirigoro al neon di Fontana, sospeso nel vuoto come un improvviso baleno saettante, riescono a creare una suggestione allusiva…".
Di quell'opera grandiosa, intitolata Grande forma antropomorfa, distrutta al termine dell'esposizione, è possibile vedere alcuni bozzetti ma soprattutto alcune bellissime riproduzioni fotografiche su riviste (e alcune le riproduciamo nella Gallery per gentile concessione dell'Archivio Tavernari di Varese). Ma nulla viene nemmeno lontanamente evocato nel nuovo Museo del Novecento a Milano, non una nota o breve citazione (che, da sole, consentirebbero quantomeno un aggancio per una ricostruzione dell'originale contesto entro il quale si collocava anche l'opera di Fontana), un disegno e nemmeno la riproduzione fotografica di quell'allestimento che, in qualche modo, ha segnato una pagina rivoluzionaria dell'arte del '900. E Vittorio Tavernari, a Milano, manca non solo nelle didascalie ma anche nella selezione delle opere esposte del neonato Museo.
Un'assenza che pesa, che ha quasi il sentore del rifiuto, se non addirittura dello scarto. Scarto che, purtroppo si materializza su "due sponde": quella milanese e quella
e quella di Cassinari
varesina, dove il nome di Tavernari è pressappoco taciuto e attende – come manna portentosa – la prossima rassegna di Villa Recalcati. Cinque anni fa segnalammo come, invece, un esperto di scultura del '900 come Giuseppe Appella, fosse salito direttamente a Varese per scegliersi due opere del nostro, senza le quali – si scriveva in via ufficiale – "non si può pensare una collezione di scultura contemporanea". Un'assenza milanese, dunque, alla quale fa da eco, il silenzio varesino, rotto forse solo dalla serie di esposizioni di Gualdoni.
Ma torniamo a Tavernari che, riguardo alla scultura della Triennale, così si esprimeva: "Il linguaggio che adopero per creare le mie sculture è un linguaggio che vorrei dire quasi panteistico. Perchè nella mia esistenza ho sempre osservato molto le cose del creato, mi hanno sempre commosso, mi hanno preso magicamente… penso quindi che la mia scultura non sia astratta come taluni credono. Quando penso e sento di creare una scultura faccio del meglio per cercare di armonizzare nella maniera più perfetta gli elementi che la scultura mi offre: piano orizzontale e verticale e profondità, le tre dimensioni, insomma, fondamentali della scultura… il mio linguaggio sfugge in parte il contatto dell'uomo per per cercare di avvicinare invece le armonie del creato nel rigore preciso delle leggi della scultura".