A leggere la “Grande Illustrazione del Lombardo Veneto” nel 1857 “Castellanza e Castegnate forma(va)no quasi un solo villaggio, con colli a levante e a ponente popolati di bellissime ville”. Vero, perché già “ab antiquo” i Borromeo avevano una casa (non molti anni fa sistemata a museo didattico) a Castegnate, poco discosta dall’Olona e dalla strada che da Milano portava al lago Maggiore dove avevano i possedimenti.
Di questo borgo furono feudatari dalla fine del Seicento i marchesi Daverio che abitarono in una casa non sontuosa né appariscente, solo caratterizzata nella facciata sulla corte da un porticato a tre archi ribassati sostenuto da colonne di granito che nella sua piacevole semplicità venne ripreso più avanti in un altro fianco dell’edificio ingentilito anche da un loggiato. Doveva essere bello proprio tanti anni fa arrivare in carrozza dalla gran città per far visita ai Daverio, attraversando paesi, villaggi e floride campagne fino a un arco scenografico ora sperduto nell’impoetico contesto moderno, da dove partiva un viale prospettico che portava proprio davanti all’ingresso padronale della casa.
Risalendo poi a Castellanza attraverso la scala non erta messa lì appena dopo la riva dell’Olona si profilavano subito due dimore cariche di storie. Su uno slargo aperto sulla strada del Sempione si ergeva nella sua austerità neoclassica la villa dei Carminati di Brambilla, patrizi di Milano proprietari qui di terre e vigne.
Questa famiglia ancora nel Settecento aveva affidato il disegno della dimora a Leopoldo Pollack, allievo del Piermarini e progettista della esemplare villa milanese del principe Ludovico Barbiano di Belgiojoso, ma esso fu accantonato perché ritenuto troppo caro. Ne approntò un altro, nel 1812, Pietro Pestagalli, infaticabile architetto di chiese e palazzi signorili soprattutto nel contado: approvato il disegno dal conte Cesare, la villa fu costruita in tempi brevi, solenne nel suo impianto ad U, con le ali leggermente ribassate e chiuse a risega a stringere oggi la severa cancellata.
Gli interni ebbero cure attente e di gusto grazie all’intervento nella galleria, nelle sale e sullo scalone degli allora apprezzatissimi decoratori Paolo Santagostini e Gaetano Vaccani mentre due figure allegoriche furono modellate in gesso dallo scultore Gaetano Monti allievo del Canova.
Di grande vastità era il giardino all’inglese della villa, ora adibita a sede municipale: progettato dallo specialista Luigi Villoresi si stendeva massimamente alle sue spalle, fino alle campagne tutte proprietà dei Carminati che “alla Castellanza” ebbero ospiti di rango, fin di casa Savoia, soprattutto quando un loro erede, il conte Giulio, assunse le cariche di “aiutante in campo” e di “gran cacciatore” di Umberto I.
Pochi passi prima del villone dei Carminati di Brambillla chi veniva da Milano poteva notare un complesso edilizio, oggi profondamente trasformato su idee di Aldo Rossi, comprensivo di casa da nobile e di rustici; sobria e senza rilevanze architettoniche la prima, se non per un portale di accesso risolto in forma monumentale e classicheggiante. Era l’antica dimora dei marchesi Fagnani, di stanza a Milano in un palazzo di via santa Maria Fulcorina, ma padroni a Castellanza di boschi, vigne, campi e mulini tutti da gestire e controllare. Questi loro possessi passarono a Marco Arese Lucini, VI conte di Barlassina, quando li portò in dote l’ultima dei Fagnani, la non propriamente virtuosa Antonietta, sì proprio quella dell’ode del Foscolo “All’amica risanata”.
Alla famiglia Arese Lucini rimasero fino alla metà dell’Ottocento quando li acquistò a caro prezzo Costanzo Cantoni che sulla riva dell’Olona aveva impiantato un grandioso cotonificio, attualmente sede, come alcune parti superstiti della villa, dell’Università Carlo Cattaneo. Ai tempi di questo imprenditore, ma più probabilmente a quelli successivi di Pietro Soldini e Carlo Jucker diventati proprietari dello stabilimento, nel parco romantico, ora aperto al pubblico, venne sistemata una serra tutta ferro e vetro, documento di una nuova mentalità al passo coi tempi che stavano diventando moderni.
Giuseppe Pacciarotti