«Dipingo perché ho BISOGNO di farlo. Non è un lavoro, non è una passione: è proprio un bisogno, che tuttora mi accompagna. Cerco di comunicare quello che sento, di condividere un’emozione con chi guarda la mia tela. L’opera “è” o “non è”. O ha la tensione della verità o non ce l’ha e chi la guarda riconosce l’immagine non in temini iconografici, ma per il suo significato». Si presenta così Antonio Pedretti, un artista capace di creare emozioni.
Si avvicina alla tela e, con un pezzo di cartone, “butta giù del colore”. Spatolate di nero, bianco, azzurro, stese con qualsiasi oggetto abbia in mano e, “per tre quarti del tempo, il quadro è informale”. Poi appare un’immagine che lui insegue, incidendo il colore. Lo sguardo è concentrato, la mano scende a tracciare linee, decisa… E’ affascinante vedere Pedretti al lavoro e il frutto della sua “gestualità” è ben riconoscibile.
Belle le parole con cui il critico Vittorio Sgarbi segue la creazione dell’artista: «Pedretti, con gli stessi attrezzi con cui aveva adempiuto alla gestazione primaria, provvede a striare la pasta cromatica rimasta più in superficie, graffiandola e incidendola sullo spesso mediante una composita successione di “rasoiate”, ancora da performer, da cui ottiene, graficamente, i caratteristici intrecci filamentosi “a canneto” che sono uno degli elementi visivi più ricorrenti nella sua cifra.
Ma in maniera analoga, prescindendo dall’amato soggetto di palude, metaforico di un preciso stato esistenziale, da spleen in chiave prealpina, Pedretti é in grado di tirare fuori dal cappello un cespuglio appena in fiore o distese innevate di “bianco lombardo”, come le chiama, giocando stavolta di fino, grazie a un brillante talento pittoricista (Antonio Pedretti. La naturalità come processo mentale)».
E’ affascinante vedere Pedretti al lavoro e il frutto della sua “gestualità” è ben riconoscibile, come mostra nella sua performance “Live in Varigotti”.
L’artista dipinge quelli che Sgarbi stesso ha definito “i paesaggi dell’anima”, che non hanno un dato iconografico preciso, ma «sono fatti della materia naturalistica che percorre tutte le immagini. Sono paesaggi legati da gesti, segni e colori, eppure diversi l’uno dall’altro, nati per comunicare con chi guarda.
Il fruitore crea poi la sua immagine – afferma Pedretti – io dò degli imput, ma è lui che “riconosce” il luogo che dipingo, non in termini iconografici, ma per il senso.
Chi guarda la mia opera entra in essa e la vive secondo la propria esperienza».
Pedretti è nato nel 1950 a Gavirate.
«Ho capito fin dalle elementari che la Pittura era la mia strada – racconta – e credo che il desiderio di raffigurare i paesaggi sia nel mio Dna: sono nato in riva al lago e sono cresciuto con i piedi immersi nelle sue pozzanghere. Quando ho avuto bisogno di esprimermi non ho scelto io il soggetto, è stato il soggetto a scegliere me. Non potevo far altro che dipingere quelle palte, quelle acque, quelle sensazioni ….».
Durante la sua formazione Pedretti frequenta gli artisti della zona. Guarda lavorare Salvini, Guttuso, Graziani e Feriani mentre segue le lezioni della Scuola d’Arte Applicata del Castello Sforzesco. Prosegue per alcuni anni gli studi all’Accademia di Brera e si lascia conquistare dagli esponenti di quella che lui stesso definisce “la Linea Calda”, ovvero gli artisti istintivi e gestuali: da Vedova a Morlotti.
«Negli anni Settanta e Ottanta imperversava l’arte concettuale, dalla quale mi sentivo molto distante. – ricorda – Erano anni difficili per chi credeva nella pittura come forma di espressione artistica. Ho voluto quindi riappropriarmi dell’immagine naturalista e romantica delle rive del lago, della memoria. Per questo dico che è stato il lago a salvarmi. Mi sono ritirato nei luoghi dell’anima e i miei riferimenti sono diventati Constable, Turner e tutti i paesaggisti».
Quando dipingo entrano nella tela i “fantasmi della pittura”, ovvero ciò che nasce dalla mia esperienza e che io “ributto fuori” con i gesti. I miei paesaggi non vanno visti ma sentiti».
La tecnica di Pedretti cambia in continuazione, come cambiano i suoi strumenti: «quando dipingo non so mai cosa “uscirà”. Butto giù dei colori e poi l’immagine nasce da sola. Come dico sempre, il quadro si fa da solo, non sono io a farlo. Posso dipingere tele grandi e piccole, anche se le dimensioni importanti mi aiutano ad esprimermi meglio, come avviene sempre per i pittori informali».
Il percorso artistico di Pedretti l’ha portato a esporre in tutto il mondo, presenziando anche alla 54esima Biennale di Venezia. La sua esperienza pittorica passa da “I Paludosi” all’“Azzurra Amazzonia”, quando Pedretti raggiunse «una terra dove la natura assume dei gesti più ampi» e dipinse i quadri per una una mostra che ha percorso tutti i musei sudamericani.
Fino al 20 maggio saranno tele di grandi dimensioni quelle esposte alla galleria MAG di Como nella personale di Antonio Pedretti. «La mostra porta il titolo “Bianco Lombardo”: quando facevo l’informale lavoravo col bianco e il nero. – sottolinea l’artista – Da lì sono usciti i “bianchi lombardi”. La neve è soprattutto una scelta coloristica, la neve lombarda è sporca, rugosa, malinconica… di una felice malinconia».
Le tele di Pedretti si rincorrono sui muri trasportando lontano l’osservatore. Le immagini tornano più volte, sottolineandosi a vicenda. «Tanti artisti hanno realizzato immagini con lo stesso soggetto, ma diverse una dall’altra. – aggiunge – Morandi, ad esempio, dipingeva la bottiglie, Cézanne continuava a raffigurare la montagna Sainte-Victoire in Provenza…
Nei quadri affiora quell’humus, quella materia particolare, ma ogni immagine ha la propria tensione e un’identità ben precisa. Entra in gioco il fruitore. Quando mi si avvicina qualcuno dicendo “quell’angolo lo riconosco … ci sono stato” io gli dico “è vero”, perché è quello che ha visto e in cui si è riconosciuto. L’immagine diventa sua e gli appartiene. E’ stato contaminato dalla mia emozione».
Lasciamoci ancora guidare dalle parole di Vittorio Sgarbi: « E’ troppo, d’altronde, l’appagamento psicologico che ogni volta Pedretti ricava dai suoi riti pittorici, congegnati per essere sistematici, quindi inevitabilmente ripetitivi, ma capaci di conseguire esiti, in termini emotivi e di valore formale, ogni volta diversi, per potersi occupare più di tanto della conversione altrui. Peggio per chi non gli dà retta.
Non sa davvero cosa si perde, chi non lo segue nelle sue silenziose perlustrazioni, assorte a gustare l’impalpabile, sfolgorante magia di ciò che ci circonda, retaggio di un senso dell’eternità che ancora sopravvive, nascondendosi gelosamente fra i meandri dell’ordinario contemporaneo, in luoghi che, più che a qualunque apparenza, più che a qualunque geografia effettiva, appartengono allo spirito, il grande spirito della natura.
Ma il lago salvifico é sempre lì, a disposizione di noi tutti. Basta volerci andare (Antonio Pedretti. La naturalità come processo mentale)».
Chiara Ambrosioni
Bianco lombardo
mostra personale di Antonio Pedretti
a cura di Salvatore Marsiglione
dal 25 aprile al 20 maggio 2018
Ex chiesa San Pietro in Atrio, Via Odescalchi 3, Como
dal martedì alla domenica dalle 10 alle 20