"Talvolta la paura della malattia è peggio che la malattia stessa".
Voglio partire da una considerazione di Adele Patrini, Presidente di CAOS, Centro Ascolto Operate al Seno di Varese.
Mi è tornata alla mente l'atra mors che devastava spopolando. E nessuno sapeva il perchè.
Febris pestilentialis, infirmitas pestifera, morbus pestiferus, morbus pestilentialis, mortalitas pestis o più semplicemente pestilentia, pestis, la peste, il cui nome forse deriva dal latino peius a significare la "peggior malattia", compendia e riassume nel nome qualunque epidemia caratterizzata da elevata mortalità. E seguendo il ritmo di corsi e ri-corsi, la malattia tornava e ri-tornava a seminare sfacelo.
Quella del XIV secolo è la famosa "peste nera", atra mors, infirmitas inaudita, un evento cruciale e periodizzante, che segna la storia, incidendo nelle curve dell'andamento demografico ed economico. Come osserva Jacques Berlioz, questa epidemia "ha aperto e chiuso il Medioevo", segnandolo con il marchio di un flagello diffuso.
Secondo le storiche Jole Agrimi e Chiara Crisciani, la peste introdusse crudelmente nel Medioevo una "morte improvvisa e in questo senso 'selvaggia', creata da un male che faceva paura perché si identificava con la stessa morte".
La peste non discriminava tra ricchi e poveri, tra forti e deboli. Era davvero la grande livellatrice, anche se attecchiva e divampava nelle città a partire dai quartieri sovrappopolati, che erano anche quelli più poveri e sporchi, dove viveva la "minuta gente".
Quando si parla di "morte nera" il primo pensiero va alla grande epidemia di peste che si propagò fra il 1348 e il 1350 e che, secondo alcune stime, fece in Europa venticinque milioni di vittime, un quarto circa dell'intera popolazione.
Poi c'è quella descritta dal Manzoni, tra "monatti alle costole de' cavalli, spingendoli, a frustate, a punzoni, a bestemmie", "scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. (…) Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. (…) La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: "addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri." Poi voltatasi di nuovo al monatto, "voi," disse, "passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola".
L'impatto con la peste, quanto è biologicamente esiziale, tanto è psicologicamente traumatico. Fuga e aggressività, manifeste anche nell'abbandono degli appestati da parte dei familiari, sono comportamenti istintivi o inconsci, reazioni alla paura e all'angoscia della morte.
Scrive Giorgio Cosmacini: "La ragione non è più articolata di così, né meglio orientata. Essa è come colta da capogiro davanti al vuoto scientifico spalancato dall'interrogativo inquietante: cos'è la peste? (…) Invarianza nosografica o quasi, impotenza della prassi, improduttività della teoria: sono questi i connotati di una medicina sorretta da una ideologia di lunga durata,
modellata per metà sul senso comune, da cui trae molti spunti, e per metà sulla scienza tradizionale, di cui riconosce il prestigio e di cui cerca d'imitare lo stile. Dalla casistica clinica – una casistica di morti – non emergono problemi salvo quello, macroscopico ma paradossalmente inavvertito, di una medicina che fallisce il proprio scopo istituzionale: totalmente, per quanto attiene al guarire, o in parte, per quanto attiene al prevenire. (…) Sulla scena della peste il blocco ideologico della medicina è totale".
C'è un dipinto straordinario che esprime lo scacco alla ragione – ma non al cuore – compiuto dalla malattia. Ne "La bambina malata" di Edvard Munch, le pennellate di colore graffiato e la voluta distorsione dei contorni che paiono non a fuoco, rendono la scena come vista attraverso le lacrime dell'artista. Quì, il male getta nello sconforto perché si identifica con la solitudine e con la stessa morte.
Il volto esangue della fanciulla appare diafano e isolato dal mondo circostante. Unico tramite "fuori di sè": la mano della madre.
Forse che "il dramma della sofferenza può essere vissuto come domanda di significato, e non come definitivo sigillo sulla vita".