Bella Storia Archivi - ArteVarese.com https://www.artevarese.com/categoria/arte/storia-e-tradizione/bella-storia/ L'arte della provincia di Varese. Fri, 01 Oct 2021 08:06:33 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.3.5 https://www.artevarese.com/wp-content/uploads/2017/05/cropped-logo-1-150x150.png Bella Storia Archivi - ArteVarese.com https://www.artevarese.com/categoria/arte/storia-e-tradizione/bella-storia/ 32 32 Quando Busto divenne grande? https://www.artevarese.com/quando-busto-divenne-grande/ https://www.artevarese.com/quando-busto-divenne-grande/#respond Wed, 29 Sep 2021 10:00:32 +0000 https://www.artevarese.com/?p=62775 La mancata provincia e la lapide in Sant’Ambrogio Busto Arsizio – Con i suoi 83.563 cittadini (dato al 31/12/2020) è la sesta città della Lombardia per numero di residenti, la prima tra quelle che non hanno il privilegio di essere capoluogo di provincia, pur contando più abitanti di Varese, Cremona, Pavia, Mantova, Lecco e Sondrio. […]

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La mancata provincia e la lapide in Sant’Ambrogio

Busto Arsizio – Con i suoi 83.563 cittadini (dato al 31/12/2020) è la sesta città della Lombardia per numero di residenti, la prima tra quelle che non hanno il privilegio di essere capoluogo di provincia, pur contando più abitanti di Varese, Cremona, Pavia, Mantova, Lecco e Sondrio. Se ci riferiamo all’intero territorio nazionale, Busto è la sessantatreesima città più popolosa, la terza tra quelle non capoluogo, dopo Giugliano e Guidonia.
Eppure i bustocchi, quando il governo Mussolini decise il riordino delle circoscrizioni provinciali, avevano sperato che la loro città potesse essere proclamata capoluogo, accorpando in una nuova provincia alcuni comuni del Circondario di Gallarate, fino ad allora nella Provincia di Milano, con quelli del Circondario di Varese, nella Provincia di Como.
Fu grande la delusione, quando il 6 dicembre 1926 vennero a sapere che il Consiglio dei Ministri aveva elevato Varese a capoluogo provinciale. Molti pensarono che si trattasse di una sorta di vendetta del duce nei loro confronti, per avergli riservato una tiepida accoglienza il 25 ottobre 1924, allorché arrivò in città per inaugurare la nuova stazione ferroviaria. Ben altro entusiasmo, quel giorno, i bustocchi avevano infatti riservato all’arcivescovo di Milano, cardinale Eugenio Tosi, loro concittadino.
Un vero peccato per la città, la cui grandezza industriale avrebbe certamente meritato un formale riconoscimento. Quale parziale consolazione, il governo Mussolini nel 1928 “regalò” a Busto le frazioni di Sacconago e Borsano.
Eppure la città lombarda non fu sempre grande.
La stessa definizione locale di “Büsti Grandi” serve solo a distinguerla dall’altra Busto, la Busto Piccola (Bispiqual), ovvero Busto Garolfo.
Il ruolo di Busto Arsizio, sia in ambito amministrativo sia religioso, è andato crescendo nel corso dei secoli, di pari passo con lo sviluppo delle sue attività artigianali, commerciali e industriali.
Fin dall’Alto Medioevo Busto ricadeva nel Comitato del Seprio, ma dopo la battaglia di Legnano (1176) e la pace di Costanza (1183) crebbe l’influenza di Milano sul territorio, definitivamente attestata in seguito alla distruzione di Castelseprio (1287) da parte di Ottone Visconti.
Una prima testimonianza della crescita bustese fu l’elevazione da locus (luogo) a burgus (borgo), riferita per la prima volta in un documento notarile del 13 dicembre 1243, ma avvenuta presumibilmente già intorno al 1240.
Ai tempi del Ducato di Milano Busto fu investita di un importante privilegio, concesso dal duca Filippo Maria Visconti il 1° aprile 1440: il borgo, con tutta la pieve di Olgiate, fu sottratto alla giurisdizione del Seprio e della Bulgaria e dotato di un proprio podestà. Il privilegio fu poi riconfermato da Francesco Sforza il 22 marzo 1451, anche se i conflitti tra il podestà di Busto e il Capitano del Seprio di Gallarate, in merito all’esercizio dell’autorità sulla pieve di Olgiate Olona, erano destinati a durare a lungo, tanto che ci volle una terza conferma del privilegio, operata da Bianca Maria Visconti e Galeazzo Maria Sforza con lettera del 4 luglio 1467.
L’annosa vicenda del conflitto di competenza fu risolta da Gian Galeazzo Sforza il quale, con una lettera dell’11 maggio 1488 invitava il podestà di Busto e gli uomini del borgo a riconoscere come loro signore e padrone Galeazzo Visconti, al quale il duca aveva concesso il borgo e le pertinenze in feudo, con titolo e dignità di conte, nonché pieno potere di giurisdizione. Busto divenne così contea, staccata dalla diretta amministrazione milanese. Di fatto, però, terminavano anche l’era e l’autonomia comunale.
Nel periodo della Repubblica Cisalpina Busto Arsizio fu capoluogo del X distretto del dipartimento dell’Olona (5 vendemmiale anno VII, corrispondente al 26 settembre 1798), salvo essere poi spostata nel IV distretto, con capoluogo Gallarate (23 fiorile anno IX, ovvero 1801).
Nella ripartizione amministrativa del Regno lombardo-veneto, fu nominata capoluogo del distretto XV (12 febbraio 1816), e successivamente capoluogo del distretto X (23 giugno 1853).
Con l’avvento del Regno d’Italia, divenne capoluogo di mandamento, nel circondario di Gallarate, provincia di Milano. Ma soprattutto fu onorata del titolo di città, con Regio Decreto del 30 ottobre 1864.
Anche le chiese e il clero di Busto per diversi secoli furono dipendenti dalla chiesa plebana di Olgiate Olona, dove si trovava il fonte battesimale. Nel XIV secolo cominciarono i primi segnali di emancipazione, con l’erezione di un fonte battesimale nella chiesa di S. Giovanni. Busto diventò ufficialmente capoluogo della pieve ecclesiastica con decreto dell’arcivescovo Carlo Borromeo in data 4 aprile 1583.
Soppresse le pievi, la diocesi di Milano è oggi suddivisa in zone pastorali e decanati. Quello di Busto Arsizio, nella zona pastorale IV di Rho, comprende unicamente le tredici parrocchie cittadine.
La grandezza di Busto, evidentemente, non è cosa remota, e un dato particolarmente interessante ce lo dimostra: il più antico documento in cui compare il nome della località è più recente rispetto a quelli di altri abitati della zona.
Infatti, fra tutti i documenti ad oggi conosciuti, il nome di Busto Arsizio viene citato per la prima volta in un atto dell’anno 1053, ben più tardi rispetto a Vico Seprio/Castelseprio (715), Peveranza (721), Cairate (737), Legnano (789), Saronno (796), Cislago (807), Lomazzo e Rovate (852) Marnate (892), Carnago e Castiglione Olona (898), Varese e Busto Garolfo (922), Parabiago (963), Sesto Calende (966), Samarate e Lonate Pozzolo (973), Gallarate (974), Solbiate Olona e Solbiate Arno (1017), Castellanza e Fagnano Olona (1045), Gorla Maggiore e Gorla Minore (1046).
Il documento del 1053, in cui compare per la prima volta il nome di “BVSTI”, è un atto di donazione disposto da tale AVGVSTVS LANTERIVS e da sua moglie VVIDA (Guida) a favore dei canonici della basilica di S. Ambrogio a Milano. Tra i beni oggetto della donazione, disseminati in varie località, vi erano i praedia (terre) posseduti in BVSTI, verosimilmente Busto Arsizio, essendo ritenuto non credibile che il termine possa essere riferito alle località di Bustes Carulfi (Busto Garolfo), Busticava (Buscate) o a Bosto.
Il testo dell’atto di donazione non è in formato cartaceo, ma è scolpito sui due lati di una grande lapide marmorea, in origine lapide sepolcrale del benefattore, da diversi secoli conservata in S. Ambrogio.
Su una faccia della pietra è riportato l’elenco dei beni donati ai canonici, sull’altra quello dei beni donati ai monaci benedettini. Entrambi erano officianti in S. Ambrogio, ma spesso in contrasto tra loro tant’è che, come pare, a causa di questa rivalità la Basilica dispone di ben due campanili, quello dei monaci e quello dei canonici.

Della lapide in S. Ambrogio si sono occupati in passato illustri storici, quali Giovan Pietro Puricelli (Ambrosianæ Mediolani Basilicæ ac Monasterii hodie Cistertiensis Monumenta, volumen primum, 1645), Serviliano Latuada (Descrizione di Milano ornata con molti disegni in rame delle Fabbriche più cospicue che si trovano in questa metropoli, tomo quarto, 1751), Giulio Ferrario (Monumenti sacri e profani dell’Imperiale e Reale Basilica di Sant’Ambrogio in Milano, 1824), Giorgio Giulini (Memorie spettanti alla storia, al governo ed alla descrizione della Città e campagna di Milano né secoli bassi, vol. II, 1854) e Vincenzo Forcella (Iscrizioni delle chiese e degli altri edifici di Milano dal secolo VIII ai giorni nostri, vol. III, 1890). Questi storici hanno potuto vedere la lapide quando ancora si trovava nella parete destra della cappella del Sacramento, con la parte riguardante Busto rivolta verso la parete e dunque non leggibile.
Oggi la lapide si trova in altro punto della basilica, incastonata in un’apertura della parete perimetrale in modo da poterne leggere entrambe le facciate. Quella su cui è scolpito il nome di “BVSTI” è rivolta all’esterno, ed è protetta da una robusta grata di ferro.
La frase in cui è citata Busto è la seguente:
“Idem vero Lanterius cum Vvida sua uxore contulit ad canonicam huius ipsus ecclesiae sancti Ambrosii tota praedia quae hubuerunt in Comazo, Iuvate, Vigunzuni, Clariani, Muirago, Qnto, Busti, Ugobaido, Lourago…”
La donazione era stata disposta con la clausola che non fosse consentito ad alcun arcivescovo o abate infeudare, vendere o cambiare tali proprietà:
“ita ut nulli unquam archiepiscopo aut abbati liceat ex eis omnibus alicui aliquid inferare vel per libellum aut cambium seu quovis modo alineare”.
L’altra condizione posta dai coniugi ai monaci era quella che “unde ipsi ppetuo sup hoc sepulchru cicendelu accendant“(che sul loro sepolcro tenessero accesa perpetuamente una lampada), e col resto si comprassero le camicie ai religiosi, affinché cantassero l’ufficio per l’anima dei testatori.

Ma chi erano questi Lanterio e Guida? Erano di Busto?

Lanterio “clarvs homo” (uomo importante) probabilmente era un valvassore senza prole. Quanto alla moglie, il Giulini nel 1854 scriveva “Roperga, detta anche Guida, moglie di Nanterio della città di Milano”.
I due coniugi, come da loro volontà, furono ricordati in S. Ambrogio per diversi secoli. I monaci cisterciensi, subentrati ai benedettini nella basilica, celebravano ogni giorno la prima messa per Lanterio e Guida. Sotto un portico presso la cappella di S. Satiro furono anche realizzati dei loro ritratti a tempera, oggi perduti.
Tuttavia, secondo il Puricelli, Lanterio non era di Milano ma apparteneva ai nobili di Cologno, perché tra i lasciti vi era anche un praedium a Colonia; probabilmente si sbagliava, perché non aveva considerato, come invece fece il Giulini, che l’anniversario funebre dei nobili di Cologno si celebrava in S. Ambrogio il 24 ottobre, anziché il 2 gennaio, data della morte di Lanterio.
Di sicuro il milanese Lanterio non poteva immaginare, mentre disponeva dei propri beni, che così facendo sarebbe entrato di diritto nella storia di Busto Arsizio.

Roberto Albé

 

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Quello che la Storia spesso trascura https://www.artevarese.com/quello-che-la-storia-spesso-trascura/ https://www.artevarese.com/quello-che-la-storia-spesso-trascura/#respond Thu, 15 Jul 2021 12:30:29 +0000 https://www.artevarese.com/?p=61743 La Storia come ce la insegnano a scuola è spesso un lungo elenco di date, di nomi, di vicende, di battaglie, che la maggior parte degli studenti ha già scordato il giorno dopo l’interrogazione. Perché? Le risposte potrebbero essere molteplici, ma a me ne viene in mente una in particolare: mancanza di empatia. Gli eventi […]

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La Storia come ce la insegnano a scuola è spesso un lungo elenco di date, di nomi, di vicende, di battaglie, che la maggior parte degli studenti ha già scordato il giorno dopo l’interrogazione. Perché? Le risposte potrebbero essere molteplici, ma a me ne viene in mente una in particolare: mancanza di empatia. Gli eventi che siamo costretti a studiare sembra quasi riguardino esseri viventi non di altre epoche, ma addirittura di altri pianeti, e il rischio “chissenefrega” è sempre in agguato.
Forse tale rischio si potrebbe evitare se, invece di partire da quello che gli uomini e le donne del passato hanno combinato, cominciassimo a esaminare il modo in cui conducevano la loro vita di tutti i giorni: dove e quanto dormivano, come si svegliavano, cosa mangiavano, cosa adoperavano per lavarsi o per curarsi… e tutta una serie di informazioni riguardanti la loro quotidianità. Magari in quel caso cominceremmo a comprenderne la vera umanità, il loro essere uguali a noi per molti aspetti e diversissimi per altri.
Nelle mie ricerche ho sempre prestato molta attenzione a certi particolari, anche perché il compito di un romanziere è proprio quello di far sì che il lettore si immerga fin dal principio non solo nella trama, ma anche nella vita concreta dei protagonisti. In questa rubrica cercherò dunque di seguire la stessa linea, nella speranza di suscitare la vostra curiosità e magari di farvi riconsiderare alcuni accadimenti famosi sotto una luce diversa.
Con l’articolo di oggi chiuderò il cerchio dedicato all’epopea longobarda in Italia, parlando proprio di alcuni aspetti riguardanti lo stile di vita dei nostri antenati intorno al VII secolo d.C.

Iniziamo da un fattore importantissimo per l’uomo moderno, ma che nell’alto medioevo contava assai meno: la misurazione del tempo.
Oggi noi viviamo con un occhio alla realtà e l’altro sempre all’orologio, sia che ci appaia sullo schermo del pc o dello smartphone, sia che si trovi appeso alla parete di una stanza: senza quello ci sentiamo persi.
Una volta però non era così: ci si alzava col sole e si andava a dormire col buio e tutto quello che succedeva nel mezzo non era scandito con maniacale precisione. Certo, a volte sorgeva comunque l’esigenza di misurare in qualche modo la durata del giorno e della notte; ma non si trattava di un bisogno quasi maniacale, come quello che invece oggi attanaglia tutti noi.
Il modo di suddividere una rotazione completa del nostro pianeta intorno al proprio asse, nel VII secolo, non si discostava poi molto da quello adoperato nei secoli precedenti dai Romani: il giorno era suddiviso in dodici ore (dall’alba al tramonto), mentre la notte in quattro vigilie (dal tramonto all’alba). Va da sé che alla nostra latitudine questo tipo di suddivisione, abbastanza equa in primavera e in autunno, nelle altre due stagioni mostrava tutti i limiti della sua elasticità: in estate le ore si allungavano e le vigilie si restringevano parecchio, mentre in inverno accadeva esattamente il contrario.
I vari momenti del giorno e della notte erano scanditi, soprattutto per i monaci, oltre che dal lavoro e dal riposo, dall’obbligo di recitare determinate preghiere. In questo periodo fanno la loro apparizione le prime campane, le quali, oltre ai religiosi, avvisano pure il resto della popolazione circostante dell’ora ufficiale: preoccupazione superflua, penserà qualcuno, visto che nessuno ha ancora al polso un orologio da regolare.
Per illustrare tale sistema, ho creato un’apposita tabella, che spero vi aiuterà a comprenderlo meglio.

Seconda tappa del nostro viaggio: il cibo.
In questo periodo, rispetto ai secoli precedenti, purtroppo si compiono parecchi passi indietro.
L’agricoltura quasi intensiva dell’epoca latina sparisce, sia per via dell’enorme calo demografico, antecedente e successivo alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, sia a causa del cambiamento climatico, che porta a una diminuzione delle temperature e a un cospicuo incremento delle piogge. Non è neanche più possibile attingere alle risorse di terre lontane, più fertili e ancora ben coltivate, perché pure le comunicazioni via terra o via mare hanno subìto un drastico ridimensionamento, e in ogni caso mancherebbero i quattrini per pagare le derrate e le merci necessarie per dar vita a uno scambio equo.
Per alimentarsi si torna dunque alla caccia e all’economia di tipo silvo-pastorale che in Italia aveva caratterizzato la prima età del bronzo.
Di rado si macellano i bovini, troppo preziosi come strumento di traino dei carri o dei pochi mezzi agricoli, che pian piano provano a strappare la terra alla vegetazione spontanea che se n’è riappropriata.
Ci si nutre, oltre che di selvaggina di vario genere, di carne di pecora o di maiale e, proprio a causa del clima, per fortuna esiste una grande abbondanza di pesce d’acqua dolce.
Tra le poche culture che sopravvivono, e che non hanno bisogno di cure eccessive, troviamo quelle delle fave, dei piselli, delle lenticchie, dei porri, delle cipolle, delle carote, dei sedani, dei ravanelli, della lattuga.
Il pane bianco di frumento è considerato un lusso e appare solo sulle tavole dei benestanti, mentre è più facile reperire quello cotto con farina di segale.
Anche l’olio di oliva nelle mense del nord della Penisola è da considerarsi una rarità, mentre la produzione di vino, seppure di qualità non certo eccelsa, non subisce sostanziali interruzioni. I Longobardi, specie quelli delle classi sociali più elevati, lo adottano molto presto come bevanda preferita, lasciando la birra ai poveri. Una prova di questo cambio di abitudini la troviamo nel famoso Editto di Rotari, di cui abbiamo parlato nel nostro precedente articolo, dove esistono diversi cenni alla protezione delle vigne, mentre alla “bionda” non viene dedicata neppure una parola.

Terza e ultima tappa del nostro breve percorso: i vestiti.
Le fibre più usate per tessere indumenti sono il lino e la lana; perché il cotone si diffonda in Europa dai paesi arabi bisognerà infatti attendere almeno altri quattro secoli.
Gli uomini indossano tuniche e larghe camice per coprire il busto, mentre le gambe sono protette da pantaloni stretti intorno alla caviglia, che costituiscono la differenza più evidente rispetto all’abbigliamento latino di epoca classica. Sopra la tunica o la camicia, durante i periodi più freddi si porta il mantello, chiuso sulla spalla destra con una o più fibule. Non si disdegna anche l’uso di pellicce: in gran voga, sia tra i nobili sia tra le classi inferiori, il corpetto senza maniche, molto pratico da utilizzare, specie a cavallo o nell’esecuzione di lavori che richiedono una certa agilità di movimento.
Le donne non indossano le “bracae”, ma tuniche che arrivano quasi fino ai piedi; il mantello, invece di essere fissato alla spalla, viene chiuso sopra il petto, appena sotto il collo, sempre da fibule, spesso di raffinatissima fattura.

Per dettagli più approfonditi ancora una volta vi consiglio “La vita quotidiana dei Longobardi ai tempi di Re Rotari” di Dario Pedrazzani, GA editore.

Dopo aver completato questo primo ciclo storico, e dovendo adempiere a improrogabili impegni letterari, mi prendo una pausa di un paio di settimane da questa rubrica. Mi sono altresì accorto che raccontare la Storia in modo leggero è diventato un lavoro piuttosto… pesante. Per questo al mio rientro ho già deciso di avvalermi dell’aiuto di alcuni validi collaboratori, che spesso parleranno in vece mia, dandomi modo di riprender fiato.

 

 

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Chi comandava tra i Longobardi in Italia? https://www.artevarese.com/chi-comandava-tra-i-longobardi-in-italia/ https://www.artevarese.com/chi-comandava-tra-i-longobardi-in-italia/#respond Thu, 08 Jul 2021 09:00:12 +0000 https://www.artevarese.com/?p=61607 La dominazione longobarda nella maggior parte della Penisola dura oltre due secoli, dal 568 al 774 d.C., e al sud si protrae addirittura fino al 1053, anno in cui il Ducato di Benevento cade sotto il dominio normanno di Roberto il Guiscardo. Non è quindi possibile pensare che, durante tutto questo periodo, l’organizzazione sociale longobarda […]

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La dominazione longobarda nella maggior parte della Penisola dura oltre due secoli, dal 568 al 774 d.C., e al sud si protrae addirittura fino al 1053, anno in cui il Ducato di Benevento cade sotto il dominio normanno di Roberto il Guiscardo. Non è quindi possibile pensare che, durante tutto questo periodo, l’organizzazione sociale longobarda rimanga immutata. Cercheremo pertanto di fornire un quadro generale dei principali meccanismi di potere che regolano tale organizzazione, pur consapevoli che le eccezioni sono tante, variabili nel tempo e pure nello spazio, perché non dappertutto ci si regola allo stesso modo.

Le rovine del ponte d’ingresso a Castelseprio

Quando si pensa a una società barbarica alto medioevale, di solito ci si immagina una struttura di tipo piramidale, con al vertice il RE e sotto tutti gli altri; in internet si trovano anche diversi schemi che traducono in immagini questa teoria, la quale, pur costituendo un buon punto di partenza, presenta parecchi limiti, il primo dei quali riguarda proprio la figura del monarca.
È opportuno infatti rammentare l’atavica allergia delle genti del nord – e i Longobardi non fanno eccezione – a farsi guidare da un solo uomo in tempo di pace. Insomma, caro boss dei boss, quando c’è da menar le mani ti seguiamo, ti veniamo dietro e, nel caso, siam pure disposti a farci ammazzare per difendere il tuo onore, oltre che il nostro; ma finita la guerra, torna a farti gli affari tuoi, che noi ci facciamo i nostri.
Ora, questo tipo di filosofia va benissimo finché fai parte di una tribù (fara nel nostro caso) che combatte unita ad altre tribù; ma funziona un po’ meno quando devi governare per un lungo periodo un territorio molto vasto, come appunto l’Italia.
Fatto sta che la monarchia longobarda inizialmente non ha un carattere ereditario, anzi, a voler ben guardare non l’avrà mai del tutto. Prendiamo ad esempio Desiderio, l’ultimo sovrano, il quale, pur non avendo alcuna intenzione di abdicare, per evitare le solite sanguinose lotte di successione, pensa bene di associarsi al trono come “re in seconda” il figlio Adelchi. Non possiamo stabilire se, dopo la sua morte, la trovata avrebbe avuto successo oppure no, perché quel trono glielo sfilerà da sotto il sedere il pio Carlo, re dei Franchi, solerte esecutore del volere papale.
In mancanza di una dinastia consolidata, a chi spetta dunque il compito di scegliere il re? Ai nobili o, per meglio dire, ai capi militari, riuniti in un’assemblea chiamata Gairethinx.
E quando si svolge questa sorta di elezione? In primavera, quando, finito l’inverno, non ci sono problemi a reperire il carburante per i mezzi di trasporto: l’erba per i cavalli.
Ma dove si svolge il Gairethinx? Di solito nella capitale Pavia, che però allora si chiamava ancora Ticinum.

L’equipaggiamento di un arimanno ai tempi di re Alboino

Immaginiamoci allora questo rave party ante litteram, dove i barbuti e capelloni (ma con la nuca rasata) guerrieri longobardi arrivano da ogni dove, sparandosi a palla nelle cuffiette la hit di Fabio Rovazzi “Andiamo a comandare” o, più probabilmente, “cantando giulive canzoni di guerra”, come recita il primo coro del “Adelchi” di Alessandro Manzoni.
Una volta arrivati a destinazione, tra titaniche pacche sulle spalle, generose bevute e qualche immancabile rissa, che spesso finisce a spadate, qualche volta ci si dimentica lo scopo principale del raduno: scegliersi un re. È quello che succede per un decennio, tra il 574 e il 584, quando, nonostante il dominio sia ancora fragile e abbia bisogno di una guida sicura, non si riesce a trovare un accordo.
Per fortuna dal 584, con la salita al trono di Autari, le cose si stabilizzano e la piramide sociale, per quando traballante, comincia a prender forma.
Chi troviamo al secondo gradino di questa piramide imperfetta? I Duchi, dal Latino Dux, i quali sono a capo di un territorio più o meno esteso, chiamato Ducato o Judicaria, dove esercitano, con notevole autonomia, un potere militare, amministrativo e giudiziario. Spesso la loro autorità entra in contrasto con quella del sovrano e non sono rari, i casi di tradimento e cospirazione, che portano alla sua deposizione o addirittura alla sua uccisione; così come non sono rari i casi in cui, per esautorare un duca, il re non ricorre alle carte bollate bensì alla decapitazione. Nella storia longobarda, un discorso a parte meritano i ducati di Spoleto e di Benevento, che, in forza del loro isolamento geografico, spesso saranno considerati da chi li comanda come dei veri e propri regni, dove l’autorità di Pavia non arriva o arriva in modo molto blando.

L’equipaggiamento di un arimanno ai tempi di re Astolfo

Sempre nel secondo gradino della nostra piramide, a capo di una Judicaria può anche esserci un Gastaldo, con gli stessi poteri di un duca, se si escludono quelli militari. A costui  infatti non è concesso di comandare un piccolo esercito personale, né di passare il proprio titolo in eredità ai figli. Egli dipende in modo diretto dal re, di cui amministra i domini personali, anche quando questi si trovano all’interno di un altro ducato. Facendo riferimento alla nostra zona, la Judicaria del Seprio, si estende da Bellinzona fino a Parabiago e da Como fino a Novara, ed è con tutta probabilità retta proprio da un gastaldo, visto che non abbiamo alcuna notizia di duchi vissuti da queste parti. Conferma tale ipotesi il fatto che a Castelseprio, nel VIII secolo, esiste una zecca reale, testimoniata dal tremisse aureo di Desiderio, recante la dicitura “Flavia Sibriot”, dove quel “flavia” indica appunto la diretta dipendenza dal re.
Tornando alla piramide, al terzo gradino abbiamo lo Sculdascio, il cui ruolo varia da esattore di tributi, a magistrato incaricato di amministrare la giustizia – a volte anche in modo itinerante – fino a quello di una sorta di “sindaco”, incaricato di tenere sotto controllo piccole porzioni di territorio.
Al quarto gradino ecco gli Arimanni, ovvero gli uomini dell’esercito, gli unici che, specie nella prima fase della dominazione, possono portare armi.
Sotto di loro vengono gli Aldii, o semiliberi, quasi tutti appartenenti all’etnia italica, o a quella di altri popoli che hanno valicato le Alpi insieme con i Longobardi.
Alla base della piramide ci sono i Servi, la cui condizione non è dissimile a quella degli schiavi dell’ormai defunto impero romano: non hanno diritti e su di loro i padroni hanno potere di vita e di morte.
Come premesso all’inizio dell’articolo, questa divisione sociale non è rigida e immutabile e, specie verso il tramonto del regno longobardo, le diverse categorie divengono permeabili le une alle altre. Alcuni Arimanni caduti in disgrazia, per esempio, non saranno più in grado di provvedere al proprio armamento, mentre diversi Aldii saranno chiamati a fornire il proprio contributo all’esercito.

Come al solito, per gli approfondimenti, vi consigliamo qualche testo, in questo caso “Historia Langobardorum” di Paolo Diacono e “Storia dei Longobardi” di Jörg Jarnut (Piccola Biblioteca Einaudi).

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L’Editto di Rotari https://www.artevarese.com/leditto-di-rotari/ https://www.artevarese.com/leditto-di-rotari/#respond Tue, 29 Jun 2021 08:00:37 +0000 https://www.artevarese.com/?p=61440 «Ansoaldo, vieni qui un momento.» Re Rotari fece cenno al notaio di avvicinarsi al trono: non voleva che gli altri membri della corte di Ticinum, riunita al gran completo, udissero quanto stava per confidargli. «Dite, maestà» fece l’anziano abbassando il capo fin quasi a sfiorare con l’orecchio le labbra del sovrano. «Senti un po’, ma […]

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«Ansoaldo, vieni qui un momento.» Re Rotari fece cenno al notaio di avvicinarsi al trono: non voleva che gli altri membri della corte di Ticinum, riunita al gran completo, udissero quanto stava per confidargli.
«Dite, maestà» fece l’anziano abbassando il capo fin quasi a sfiorare con l’orecchio le labbra del sovrano.

Pagina tratta dall’Editto di Rotari

«Senti un po’, ma questo… come accidenti hai detto che si chiama?»
«Romolo, maestà.»
«Già, è vero, Romolo. Un nome, una città, un programma…»
«In effetti» commentò il notaio lasciandosi andare a un accenno di sorriso.
«Sì, comunque» proseguì il re, avendo cura di tener sempre basso il tono della voce, «nome a parte, è uno di cui ci si può fidare?»
«Nel suo campo è il migliore; altrimenti non l’avrei scelto tra tutti i funzionari del Papa, “rubandoglielo” con la promessa di un lauto compenso.»
Nell’udire nominare il pontefice, Rotari non trattenne una smorfia di disappunto.
«Non ricordarmi da dove viene, per carità, né quanto ci costa! Ma, insomma, Ansoaldo: al censimento non ci potevi pensare tu?»
«Ve l’ho già spiegato, maestà, far di conto non è il mio mestiere: io mi occupo di lettere, non di numeri. E oltretutto si trattava di un lavoro lungo, che prevedeva un’infinità di viaggi; se mi ci fossi dedicato, non avrei più potuto aiutarvi in tutto il resto del lavoro qui nel Palatium.»
«Sarà» disse il re riprendendo una postura più formale sullo scranno e picchiettando le dita della mano destra sui braccioli intarsiati, «ma intanto questo Romolo è in ritardo: doveva essere qui già da un pezzo.»
«Abbiate pazienza, sire, lo sapete pure voi che a quest’ora il traffico a Ticinum è un delirio.»
Proprio in quel momento una delle guardie annunciò l’entrata dell’atteso ospite, il quale, giunto davanti al sovrano, si profuse in un profondo inchino; lo stesso fece il giovanissimo servo al suo seguito, che portava a tracolla una borsa stracolma di rotoli di pergamena. Romolo, invece, di rotolo ne reggeva uno solo e lo stringeva in pugno come la più preziosa delle reliquie.
Rotari suppose che quel documento dovesse contenere una summa dei dati raccolti e andò dritto al punto.
«Dimmi in fretta, Romolo, quanti arimanni vivono in tutta la Langobardia Major?»
Il funzionario si schiarì la voce, srotolò la pergamena e proclamò a gran voce: «Novantasettemilacinquecentoventitrè
Il sovrano sobbalzò sul trono, mentre un mormorio di perplessità si spandeva in tutta la sala.
«Coosaaa? Ho capito bene? Quanti hai detto?»
«Novantasettemilacinquecentoventitrè» ripeté l’altro dopo aver dato un’altra rapida occhiata al documento. In realtà non aveva alcun bisogno di farlo, perché quella cifra ormai la conosceva a memoria, avendo controllato e ricontrollato i conti nei giorni precedenti.
«Com’è possibile?» domandò il re. «Due anni fa erano più di centomila, me lo ricordo bene! Ma anche se fossero stati solo centomila, vorrebbe dire che in questo periodo avremmo perso perlomeno…» si grattò il mento per cercare di calcolare il numero.
«Duemilaquattrocentosettantasette» suggerì pronto Ansoaldo, rimasto in piedi accanto a lui.
Rotari gli lanciò un’occhiataccia.
«Tu non eri quello che non se la cavava coi numeri?»
«Non ho detto che non me la cavo, maestà» si schermì il notaio. «Ho detto solo che di mestiere faccio altro.»

Pagina tratta dall’Editto di Rotari

«Vabbé, lasciamo perdere» disse voltandosi di nuovo verso Romolo. «Come ti spieghi questo calo? Guerre non ne abbiamo fatte, il cibo – sia grazia a San Michele – non ci manca, di pestilenze non si parla da un po’… E dunque?»
«A dotto’, io un’idea ce l’avrei.»
«Dotto’? Che significa questa parola?»
«Sta per dottore, maestà» precisò il notaio. «Non ci fate caso: a Roma chiamano così tutte le persone importanti, per render loro omaggio, e a volte anche quelle non importanti, per prenderle per il c… per prenderle in giro, volevo dire.»
Rotari borbottò una mezza imprecazione e tornò a occuparsi del funzionario.
«Avanti, sentiamola, la tua idea» disse dopo un sospiro, sottolineando la frase con un ampio gesto della mano.
«Er fatto è, dotto’, che nun c’è bisogno che a voi Longobardi v’accoppino li nemici, ‘a peste, ‘a carestia: un po’ pe’ vorta ve state accoppa’ da soli, tra de voi!»
«Ma che razza di lingua parla costui?» domandò il sovrano ad Ansoaldo.
«È il loro dialetto, sire. Se il senso vi è oscuro, io potrei tradurvi…»
«No, non è necessario: per capire, lo capisco; mi pareva solo un po’ strano. Be’, Romolo, dimmi: cosa intendi, quando dici che ci stiamo ammazzando tra di noi?».

Pagina tratta dall’Editto di Rotari – particolare

«Dotto’, voi me parete uno sveglio, nun c’è bisogno che ve spieghi. È tutta corpa de ‘sta vostra brutta “tradizione”, de ‘sta faida, come la chiamate voiartri. Ve se ingroppano ‘a moje? Fate ‘na faida! Ve se ingroppano ‘a sorella? Fate ‘na faida. Ve rubbeno er cavallo? Fate ‘na faida. Ve magneno er porco? Fate ‘na faida! Idem pe’ la vacca, ‘a pecora, er tacchino, er pollo, ‘a gallina… Pe’ tutto fate ‘na faida. Ora, io posso capi’ pe’ la moje – un po’ meno pe’ ‘na sorella – ché la mia è pure ‘na gran zoccola – ma scanna’, o fasse scanna’, pe’ un cavallo o pe’ un porco, nun me pare proprio er caso! Er bello è che, quanno ve cominciate ad accoppa’ pe’ ‘ste cose, ve tirate appresso tutta ‘a famiglia: padri, figli, fratelli, cognati e persino li cuggini de terzo grado! Nun se pote, dotto’, nun se pote.»
«Per noi il cavallo è importante» provò a giustificarsi il re, rendendosi subito conto della banalità, per non dire della stupidità, delle parole che gli erano appena uscite dalle labbra.
Nel frattempo nella sala il mormorio di stupore, che aveva fatto da sfondo alle cifre del censimento, stava pian piano mutando in un mormorio di disapprovazione: come osava quel mezzo eunuco di romano mettere in discussioni usanze che si perdevano nella notte dei tempi?
Approfittando del fatto che l’attenzione non fosse puntata tutta su di sé, Rotari fece cenno ad Ansoaldo di avvicinarsi di nuovo.
«Tu che ne pensi?» gli sussurrò.
«Be’, maestà, per quanto si sia espresso in modo piuttosto bizzarro, credo che Romolo non abbia tutti i torti: di questo passo non avrete più arimanni e di conseguenza non avrete più un esercito. Qualcosa bisognerà pur fare.»
«Sì, ma cosa?»
«Provate a chiederlo a lui» suggerì il notaio indicando l’ex funzionario papale.
«Buona idea!» fece il sovrano, che si rivolse subito a Romolo. «Da secoli il nostro popolo usa la faida per risolvere le proprie controversie. Il tuo invece cosa fa? Illuminaci.»
«Noi c’avemo le leggi, dotto’.»
«Sarebbe a dire?»
«Delle regole che tutti quanti dovemo rispetta’.»
«Pure noi abbiamo le nostre regole.»

Pagina tratta dall’Editto di Rotari – particolare

«Eh, già! Ma le nostre so’ scritte, dotto’, così nessuno se le po’ inventa’ sur momento e di’ a tutti che cià ragione lui, quanno nun è così. D’accordo che poi ce stanno pure l’avvocati, che so’ bravi a rigiralle; ma intanto quarcosa de scritto ce sta e se un giudice è onesto, nun se fa infinocchia’, nemmeno dall’avvocati bravi.»
«Interessante…» commentò Rotari alzandosi dal trono e avvicinandosi ad Ansoaldo. «Che dici? Potremmo fare così pure noi?»
«Attenerci alle leggi romane, intendete?»
«Non dire idiozie: le leggi romane vanno bene per i romani! Noi dobbiamo farci le nostre e farle applicare da giudici longobardi. Basta con le faide, basta con gli scannamenti. Se qualcuno subirà un torto, dovrà chiedere giustizia al re o ai suoi emissari. E per ogni torto subìto, a seconda della gravità, sarà previsto un… un…»
«Risarcimento!» propose Romolo, che era riuscito a sentire le ultime parole.
«Noi lo chiamiamo widergild» dichiarò con fierezza il sovrano.
«Potremo tradurlo con guidrigildo» suggerì Ansoaldo. «Comunque, maestà, anche se l’idea è buona, bisognerà sobbarcarsi un lavoro immane per metterla in pratica.»
«Ah, caro il mio notaio, quello sarà un problema tuo: non hai detto che le lettere sono il tuo mestiere?» disse cingendoli le spalle col suo muscoloso braccio. «Ora però andiamo a mangiare, perché tutto questo parlar di leggi mi ha messo addosso una fame da lupo. Ovviamente siete invitati anche voi due» concluse rivolto al funzionario e al suo aiutante.
«Grazie, dotto’ pure noi c’avemo ‘na certa fame» annuì Romolo chinando il capo. Aspettò che il re e il suo consigliere si allontanassero di qualche passo, prima di rivolgersi al suo giovane servo: «Hai sentito, Simo’? Non risarcimento, ma “Guidrigildo”» disse imitando la voce altisonante di Ansoaldo «…che nome der cacchio! Nun se po’ sentì, nun se po’!»

Le cose probabilmente non andarono in questo modo; anzi, sicuramente non andarono così; ma che Rotari decise di far redigere il suo famoso editto anche – ma non solo – per por fine alle continue faide è un dato di fatto.
Non ci risulta, invece, che i Longobardi abbiano mai indetto un censimento, non perlomeno nel senso in cui lo intendiamo noi o lo intendevano i Latini. E se mai avessero deciso di farlo, di certo non avrebbero incaricato del lavoro un… Romano de Roma.
La Storia è una cosa seria, lo sappiamo; ma come per tutte le cose serie, ogni tanto è lecito scherzarci un po’ sopra, se non vogliamo renderla troppo noiosa, ed è quello che ho cercato di fare io oggi con questo raccontino, nella speranza di non offendere gli storici veri.
Sull’Editto di Rotari, la prima lex germanica scritta, esiste una vasta bibliografia, che è impossibile riassumere qui. Per chi però fosse alla ricerca di una spiegazione semplice ma non banale, mi permetto di consigliare “I Longobardi – Dalle origini mitiche alla caduta del Regno d’Italia” di Nicola Bergamo (LEG Edizioni) e “La vita quotidiana dei Longobardi ai tempi di Re Rotari” di Dario Pedrazzani (GA Editore). Chi invece ai saggi preferisce i romanzi avvincenti, ma sempre frutto di una rigorosa ricerca storica, non può non leggere “Il Longobardo” di Marco Salvador, recentemente ripubblicato da Edizioni Biblioteca dell’Immagine.

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L’eredità linguistica Longobarda https://www.artevarese.com/leredita-linguistica-longobarda/ https://www.artevarese.com/leredita-linguistica-longobarda/#respond Tue, 22 Jun 2021 14:00:52 +0000 https://www.artevarese.com/?p=61290 Anno 1951. Mio padre è a Roma a fare il militare e riceve una lettera da mia madre, nella quale lo informa che ha cominciato a preparare la schirpa. Lui le risponde ringraziandola del pensiero, ma spiegandole che la sciarpa i soldati non la possono indossare, mai, neppure quando montano di guardia o in libera […]

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Parte di un corredo femminile longobardo, esposto al Museo Archeologico di Cividale del Friuli

Anno 1951. Mio padre è a Roma a fare il militare e riceve una lettera da mia madre, nella quale lo informa che ha cominciato a preparare la schirpa. Lui le risponde ringraziandola del pensiero, ma spiegandole che la sciarpa i soldati non la possono indossare, mai, neppure quando montano di guardia o in libera uscita.

Mio padre è emigrato a Busto Arsizio dalla Sardegna già da qualche anno e in poco tempo, da ragazzo sveglio qual è, ha imparato il dialetto locale. Quella parola però non l’ha mai sentita prima; è convinto che mia madre si sia sbagliata, o abbia scritto male: schirpa al posto di sciarpa. Non sa che la schirpa, in dialetto, è il corredo nuziale e men che meno può sapere che quella parola derivi direttamente da una lingua ormai scomparsa, quella dei Longobardi. L’etimologia, del resto, è ignota anche a mia madre, che pure è bustocca da generazioni.
Facciamo un salto in avanti di qualche anno.

Parte di un corredo femminile longobardo, esposto al Museo Archeologico di Cividale del Friuli – particolare

Schirpa o sciarpa, il fidanzamento va a buon fine e, a qualche mese di distanza da mio fratello, nasco io. Come tutti i bambini, sono spesso assalito dall’irrefrenabile istinto di fare il buffone. Questo accade soprattutto quando, in assenza dei genitori, vengo affidato alle cure di qualche anziano parente, nel caso specifico la mia prozia, Angioletta, classe 1910. Vedendomi cantare, saltare e ballare in giro come un giovane giullare di corte, la prozia mi apostrofa, chiamandomi «Lifrocu d’un lifrocu!»
Al ritorno a casa di mia madre, chiedo lumi su quello strano appellativo. Lei mi spiega che significa appunto “stupido” e che in passato veniva spesso attribuito allo scemo del villaggio, ma che ormai quasi nessuno, lei compresa, lo adopera più.

Parte di un corredo femminile longobardo, esposto al Museo Archeologico di Cividale del Friuli-particolare

Tutta questa premessa, che parte dalla piccola storia – in questo caso quella della mia famiglia – serve per arrivare alla Grande Storia. Stavolta però la nostra rubrica non si occupa di accadimenti, ma di ciò che il passato ci lascia: non solo reperti e rovine, ma anche una preziosa eredità linguistica. Come abbiamo visto, tuttavia, tale eredità, al pari dei ruderi in pietra, quando non viene tutelata in modo adeguato, è destinata all’oblio e rischia di sparire per sempre.
Un paio di anni fa, durante un laboratorio di ricerca e scrittura creativa, realizzato all’interno delle scuole primarie, chiesi ai ragazzi non solo il significato di schirpa e lifrocu, ma anche quello di diversi altri termini dialettali e nessuno, proprio nessuno, su otto classi coinvolte, riuscì a rispondere.
Ecco perché, in questo nostro brevissimo viaggio all’interno del lascito longobardo all’idioma moderno, ho scelto di partire dal dialetto: oltre a fornire gli esempi più divertenti è quello che ha maggior bisogno di essere protetto e valorizzato, a partire proprio dalla scuola.
Di seguito riporto un piccolo elenco di parole longobarde, che sono passate nel vernacolo locale e nella lingua italiana. Si tratta ovviamente di un elenco incompleto, dato lo spazio a disposizione. Premetto inoltre che l’etimologia di alcuni termini potrà essere oggetto di discussione, sul fatto che sia specificatamente longobarda o germanica in generale; ritengo tuttavia che questo elenco possa comunque fornire uno stimolo, ai più curiosi, per un’ulteriore ricerca.

Italiano

Aizzare da hizzja (furore), albergo da hariperg (alloggio), arraffare da hraffon (afferrare con forza), balcone da balk (travatura), baldo da bald (coraggioso), bara da bara (lettiga), bolzone da bolz (ariete o freccia della balestra), campione da kampjo (combattere), faida da fehida (vendetta), fante da fanpjo (soldato a piedi), greppia da kruppja, guancia da wankja, guidrigildo da widregild (risarcimento), maniscalco da marh (cavallo) e skalk (servo), palco da palk (travatura), pigotta da piga (ragazzina), scaffale da skafa (palchetto), spiedo da spiet (punta acuminata), sgherro da skarrjio (capitano), sguattero da whatari (guardia), spalto da spalt (fenditura), stamberga da stain (pietra) e berga (alloggio), staffa da stapf, sterzo da sterz (manico dell’aratro), tanfo da tampf (cattivo odore), trappola da trap (laccio), truogolo da trog, zaino da zanja (cesta), zazzera da zazz (ciocca) e hera (capelli).

Dialetto

Biot da blausz (nudo), bision da bison (correre in giro), canappia da nappja (naso), gram da gram (triste, irato), lifrocu da lifroch (stupido), schirpa da skerpfa (corredo nuziale), scür (imposte delle finestre) da skur (rifugio), scussal (grambiule) da skauz (grembo), stracc da strak (tirato).

Nomi propri

Aldo, Anselmo, Bruno, Corrado, Goffredo, Manfredo, Raimondo, Rainaldo.

Cognomi

Adinolfi, Aldobrandi, Alighieri, Arnaldi, Baraldi, Berlinghieri, Bernardi, Confalonieri, Garibaldi, Grimaldi, Leopardi, Marescalchi, Sebregondi, Siliprandi, Rambaldi, Tebaldi, Ubaldi, Valcarenghi.

Ai più attenti osservatori non sarà sfuggita la vocale u in fondo al termine lifroch, che in altre zone della Lombardia viene invece pronunciato in modo identico al longobardo, ovvero senza la u finale. Questo accade perché nel dialetto bustocco le ancestrali influenze liguri, caratterizzate appunto da questa vocale, sono molto più presenti.
Famosa la gaffe di Umberto Bossi, che quando venne eletto consigliere comunale a Milano, pensò bene di dedicare ai rappresentanti degli altri partiti il celebre sonetto di Carlo Porta “Paracar che scappee de Lombardia”, che il poeta aveva scritto per i Francesi scacciati dagli Austriaci.
Arrivato al primo verso della seconda quartina (“E sì che tutt el mond sa che vee via”), Bossi, nato a Cassano Magnago, disse münd al posto di mond, beccandosi una salva di fischi dai milanesi d.o.c.: quando si tratta di dialetti, è cosa nota, spesso pochi chilometri fanno la differenza.

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La fine del Regno Longobardo https://www.artevarese.com/la-fine-del-regno-longobardo/ https://www.artevarese.com/la-fine-del-regno-longobardo/#respond Tue, 15 Jun 2021 18:30:56 +0000 https://www.artevarese.com/?p=61169 Narrare per intero oltre due secoli di dominazione longobarda, anche limitandosi alla nostra regione, sarebbe davvero un’impresa titanica, che del resto non rientra tra gli scopi di questa rubrica. Punteremo pertanto la nostra attenzione, in questa come in altre future occasioni, sui cosiddetti “punti di svolta”, quelli che determinano, spesso in seguito a fatti all’apparenza […]

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Narrare per intero oltre due secoli di dominazione longobarda, anche limitandosi alla nostra regione, sarebbe davvero un’impresa titanica, che del resto non rientra tra gli scopi di questa rubrica. Punteremo pertanto la nostra attenzione, in questa come in altre future occasioni, sui cosiddetti “punti di svolta”, quelli che determinano, spesso in seguito a fatti all’apparenza di poco conto, veri e propri cambi di direzione, destinati a mutare in modo sostanziale il corso degli eventi.

Tremisse aureo di Desiderio coniato a Castelseprio

Ecco perché, con un ardito salto temporale, abbiamo deciso di spostarci dal primo re longobardo giunto in Italia, Alboino, all’ultimo, Desiderio.
Per non lasciare però del tutto al buio i duecento anni che li separano, un paio di nomi li tiriamo fuori lo stesso, anzi facciamo tre: Teodolinda, Rotari e Liutprando.
La prima, essendo pure lei di origini bavaresi, come lo sarà nel XIX secolo Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach, potremmo considerarla una Principessa Sissi ante litteram, tanto è forte l’amore che i sudditi le tributano. Su questo aspetto tuttavia, è giusto ribadirlo, non tutti concordano: Teodolinda preme infatti per un rapido passaggio alla fede cattolica da parte del suo popolo d’adozione; ma molti Longobardi restano ancora legati all’arianesimo, se non addirittura a precedenti riti pagani.
Re Rotari, invece, oltre che per aver esteso il suo dominio fino alla Liguria e aver sottratto altre importanti roccaforti all’Impero Romano d’Oriente, è ricordato per aver dato a vita in Europa al primo codice di leggi scritte da un popolo barbaro, che va appunto sotto il nome di “Editto di Rotari”. Data l’importanza di tale codice, gli dedicheremo, sempre all’interno della nostra rubrica, uno spazio apposito.

Tremisse aureo di Liutprando

Il terzo nome è quello di Liutprando, sotto il cui regno (712-744 d.C.) il dominio longobardo raggiunge la massima espansione. Questo sovrano è forse l’unico, tra tutti quelli che si sono succeduti sul trono, a esercitare un rigido controllo sui vari ducati, compresi quelli potentissimi di Spoleto e di Benevento, che fin dalla fondazione sono stati piuttosto restii ad accettare ordini da Pavia. Altro merito di Liutprando è quello di riformare in modo sostanziale l’esercito, lasciando definitivamente da parte l’albero genealogico e la discendenza dura e pura, per far spazio al censo: in pratica più soldi e proprietà possiedi, più sei tenuto a fornire un congruo contributo nell’armare te stesso e il tuo seguito. Così ritroviamo nobili decaduti di sangue longobardo retrocessi ad arco e frecce (all’epoca le armi più economiche) e italici, che nel frattempo hanno ricostruito le proprie fortune, in sella a scalpitanti destrieri, bardati di tutto punto.
Tale riforma tuttavia, per quanto valida nelle intenzioni e nella sua attuazione pratica, non basterà, trent’anni dopo, a salvare Desiderio dalla disfatta.
E siamo così giunti all’argomento principale di questa puntata di “Bella Storia”.
Quando, durante presentazioni o conferenze, mi chiedono quali siano state le ragioni della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, di solito rispondo: «Mettetevi comodi, perché di ragioni ce ne sono circa un centinaio. Da dove volete che cominci?»
Quando però mi pongono la stessa domanda sulla fine del regno longobardo, ho molti meno dubbi e rispondo con una certa sicurezza che le ragioni sono tre: i Duchi, il Papato e i Franchi. Un’altra triade, insomma, che proviamo ad analizzare.
I duchi, perché in pratica quasi sempre dettano legge e si scelgono un re su misura, che non metta becco nei loro interessi. Il loro potere è smisurato, ma ancor più smisurata è la loro avidità, in nome della quale tessono intrighi e tradiscono con una facilità impressionante, che ai nostri occhi moderni riesce davvero difficile comprendere. Quando arrivano in Italia alcuni nobili longobardi non hanno ancora disfatto i bagagli, che già stanno pensando di passare al nemico. Come abbiamo detto, solo Liutprando riesce a tenerli a freno, mentre tutti gli altri sovrani li considerano come potenziali avversari, dai quali guardarsi costantemente le spalle, più che come alleati.

Scontro tra guerrieri longobardi (a sinistra) e (franchi a destra)

La seconda ragione della fine del potere longobardo in Italia, dicevamo, è costituita dal Papato. Quando la Chiesa di Roma si vede erodere, castello dopo castello, città dopo città, il proprio potere temporale, corre ai ripari e, non potendo più chiedere aiuto a Costantinopoli, che in quel momento ha ben altre minacce da affrontare, pensa bene di rivolgersi a un’altra stirpe germanica: i Franchi (terza ragione).
E sono proprio loro, i cuginastri d’Oltralpe, a infliggere il colpo fatale ai Longobardi. In quale modo, lo vediamo subito.
Il casus belli potrebbe essere, nel 751, la conquista di Ravenna da parte di re Astolfo.
Papa Stefano si rende conto che, se anche i Bizantini volessero mandargli soccorsi, non avrebbero più nemmeno un porto dove farli sbarcare e così chiede aiuto a Pipino il Breve, figlio di Carlo Martello, eroe della battaglia di Poitiers.
Pipino scende in Italia, infligge una prima sconfitta ad Astolfo, il quale promette di fare il bravo e di restituire i possedimenti sottratti alla Chiesa; ma poi non tiene fede alla promessa e il re franco è costretto a tornare nella Penisola e a impartirgli una seconda lezione.
A questo punto è chiaro a tutti che, nonostante la riforma di Liutprando, l’esercito franco è nettamente superiore a quello longobardo, è meglio organizzato, meglio armato e, non da ultimo, meglio comandato: non c’è sempre bisogno di “pregare” i vari capi e capetti di far bene la propria parte; la fanno e basta. Ci si rende in conto, insomma, che il proverbiale coraggio dei Longobardi, il loro ardore in battaglia, che nessuno ha mai messo in discussione, da solo non basta a vincere una guerra.
Forse se ne rende conto pure Desiderio, che sale al trono nel 757 d.C: e che, non avendo alcuna intenzione di restituire i possedimenti sottratti alla Chiesa, tenta la via diplomatica, dando due delle sue figlie in spose ai figli di Pipino, Carlo e Carlomanno. Il primo ripudierà la sua senza tanti complimenti; il secondo morirà in circostanze poco chiare, lasciando la propria vedova con due figli.
Proprio il diritto al trono di Francia da parte dei due pargoli, diverrà un ulteriore motivo di dissidio tra Desiderio e Carlo, ormai unico re dei Franchi, pure lui chiamato a difendere la Sacra Romana Chiesa, questa volta dalle suppliche di papa Adriano.
Mentre il re longobardo aspetta al varco delle Chiuse in Val di Susa l’attacco di Carlo, costui manda metà del proprio esercito, alla guida dello zio Bernardo, a passare le Alpi molto più a nord; lui stesso, alla guida dell’altra metà, aggira le fortificazioni attraverso un impervio sentiero tra i monti.
Desiderio è costretto a ripiegare e, secondo alcuni storici, affronta Carlo nei pressi del fiume Sesia, dove un primo scontro finisce in parità. Quel che è certo è che ora il sovrano franco può comunque disporre anche degli uomini dello zio, che nel frattempo lo hanno raggiunto, e spingere i Longobardi verso il Ticino.
Pure qui le versioni discordano.
Secondo alcuni, nei pressi di Ara, che da allora si sarebbe appunto chiamata Mortara, ha luogo l’ultima fatale sanguinosa battaglia, che costringe Desiderio e i superstiti a rifugiarsi a Pavia.
Secondo altri, invece, il re longobardo cerca subito scampo, senza neanche combattere, nella capitale, dove ordina al figlio di rifugiarsi a Verona. Adelchi, questo il suo nome, sentendo puzza dell’ennesimo tradimento da parte del duca a capo della città veneta, fugge dall’Italia per trovare asilo dai vecchi nemici bizantini, a Costantinopoli.
Siamo alla fine dell’estate del 774 d.C. e Pavia resisterà all’assedio fino all’inizio di quella dell’anno seguente, per consegnarsi al vincitore.
Re Desiderio e la regina Ansa finiranno i loro giorni chiusi in due diversi monasteri.
Le ultime concitate vicende del regno longobardo, come avrete capito, sono piene di buchi ancora da riempire, di “se”, di “forse”, di “siamo sicuri?”, e se queste incertezze costituiscono materia di indagine e di lavoro per gli storici, rappresentano altresì un terreno fertilissimo per un romanziere. Se dunque volete conoscere la mia personalissima, e in buona parte fantasiosa, ricostruzione degli eventi – vista sempre da quel particolare osservatorio storico che è Castelseprio – mi permetto di consigliarvi “Il segreto di Sibrium”.

Il segreto di Sibrium, romanzo storico di Alessandro Cuccuru – Aporema Edizioni

Vi lascio intanto con una citazione, tratta dalla “Storia d’Italia” di Indro Montanelli e Roberto Gervaso (© 1965-2011 RCS Libri S.p.A. Milano), che ho voluto inserire anche alla fine del mio romanzo.
“Così finì l’Italia longobarda, e nessuno può dire se fu, per il nostro Paese, una fortuna o una disgrazia. Alboino e i suoi successori erano stati degli scomodi padroni, più scomodi di Teodorico, finché erano rimasti dei barbari accampati su un territorio di conquista. Ma oramai si stavano assimilando all’Italia e avrebbero potuto trasformarla in una Nazione, come i Franchi stavano facendo in Francia.
Ma in Francia non c’era il Papa. In Italia sì.”

 

 

Bibliografia:
“Historia Langobardorum” di Paolo Diacono;
“Storia dei Longobardi” di Jörg Jarnut (Piccola Biblioteca Einaudi);
“I Longobardi – Dalle origini mitiche alla caduta del Regno d’Italia” di Nicola Bergamo (LEG edizioni);
“I Longobardi e la guerra” Autori Vari (Viella).

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L’arrivo dei Longobardi https://www.artevarese.com/larrivo-dei-longobardi/ https://www.artevarese.com/larrivo-dei-longobardi/#respond Wed, 09 Jun 2021 08:00:38 +0000 https://www.artevarese.com/?p=61023 Dopo quasi vent’anni di guerra contro gli Ostrogoti, i Bizantini non hanno più voglia di combattere, ma sarebbe meglio dire che non ne hanno più le forze. La vittoria contro quei barbari che, non dimentichiamolo, loro stessi avevano mandato a prendersi l’Italia è la classica vittoria di Pirro, che non porta alcun beneficio a chi […]

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Dopo quasi vent’anni di guerra contro gli Ostrogoti, i Bizantini non hanno più voglia di combattere, ma sarebbe meglio dire che non ne hanno più le forze. La vittoria contro quei barbari che, non dimentichiamolo, loro stessi avevano mandato a prendersi l’Italia è la classica vittoria di Pirro, che non porta alcun beneficio a chi la ottiene.
Ecco perché i Romani d’Oriente preferiscono stringere accordi con i Franchi, piuttosto che scontrarsi con loro, nella convinzione che, sventata la minaccia da occidente e da settentrione, la Penisola possa, almeno per qualche tempo, dormire sonni tranquilli e provare a riprendersi dalle disastrose condizioni in cui loro stessi hanno contribuito a farla cadere.
Come spesso accade nella Storia, però, quando ti prepari e aspetti che il nemico arrivi da una parte, lui arriva dall’altra. Le Alpi non vengono varcate da Nord, ma da Est, e non da parte dei Franchi, ma da un’altra etnia germanica: i Longobardi.

L’Italia alla morte di Alboino

Il giorno di Pasqua del 568 d.C., dopo un tanto solenne quanto poco credibile, perlomeno dal punto di vista della fede, battesimo di massa, re Alboino conduce il suo popolo alla conquista dell’Italia. Qualche cinico osservatore, nel constatare l’opportunismo politico di una simile scelta, potrebbe definire il sovrano longobardo come il primo democristiano della Storia; ma qualcun altro potrebbe d’altro canto obiettare che tale ruolo andrebbe assegnato di diritto all’imperatore Costantino e alla croce usata come vessillo in battaglia.
Lasciando da parte questi paragoni, proviamo a vedere com’è composto il seguito di Alboino.
Con lui non ci sono solo arimanni, ovvero uomini liberi in grado di portare armi, ma anche aldii (i semiliberi), servi, schiavi e parecchi appartenenti ad altre tribù alleate o sottomesse, come i Sassoni o i Bulgari, tanto per citarne un paio. E non vengono da single, per una breve scampagnata: al seguito si portano donne, bambini e bagagli.
In tutto arrivano forse a duecentomila anime, che per i tempi moderni possono sembrare poche, ma che in un Paese quasi spopolato, com’era allora il nostro, sono un’enormità.
Intendono restare. Forse per sempre, anche se, prima di lasciare la Pannonia (corrispondente all’incirca all’attuale Ungheria) agli Avari, con cui la coabitano, avrebbero detto: «Teneteci caldo il posto, perché se non ci troviamo bene, tempo qualche annetto, e torniamo.» E quelli avrebbero risposto: «Sì, certo, come no? Contateci pure.»
Anche sulla credibilità di questo patto, così come su quella del battesimo di massa, ci sarebbe molto da discutere: non dimentichiamo infatti che gli Avari sono diretti parenti degli Unni e fino ad ora si sono rivelati alleati scomodi per i Longobardi.

L’Europa occidentale alla fine della Guerra Greco-Gotica

Vale la pena spendere qualche parola in più su questo popolo, non fosse altro per il fatto che per oltre due secoli occuperà la nostra regione, regalandole oltretutto il suo attuale nome: Lombardia, da Langobardia appunto.
Provenienti dalla Scandinavia, i Winnili, così allora si facevano chiamare, all’inizio dell’età imperiale occupano le terre comprese a nord della Germania, tra l’Elba e il Reno. Devono il loro nome definitivo, secondo alcuni, alle loro lunghe barbe, confuse coi lunghi capelli, che facevano crescere ai lati della testa e radevano sulla nuca. Secondo altri, invece, il termine deriverebbe da Langbart, che in antico germanico significa lunga lancia, arma della quale facevano largo uso.
Per trecento anni di loro non si hanno notizie.

Ricompaiono nel V secolo, nelle zone comprese appunto tra la Pannonia e il Norico, dove sconfiggono altre potenti tribù germaniche, come quella degli Eruli, di cui abbiamo già parlato e del cui favoloso tesoro si impadroniscono; o dei Gepidi, il cui ultimo re, Cunimondo, viene ucciso proprio da Alboino, che ne sposa la figlia, Rosmunda.
Sorvoliamo sulla celeberrima leggenda, che vede il re longobardo costringere la moglie a brindare nel cranio svuotato del padre, e limitiamoci ai fatti.
Alboino in pratica non incontra resistenza, né da parte dei Bizantini, né tanto meno da parte delle popolazioni locali. A Cividale, allora Forum Iulii, insedia il nipote Gisulfo, che diventa il primo Duca del nuovo regno, e poi dilaga senza sforzo in tutta la pianura padana, fino a Mediolanum e oltre: solo Ticinum (oggi Pavia) gli resiste.
Lasciamo il nostro re ad assediare la città e a spingersi oltre, fino ad arrivare in Piemonte, perché per noi è tempo di tornare, in provincia di Varese.
Dopo essersi impadroniti di Mediolanum e aver fatto fare i bagagli al vescovo, che si rifugia a Genova dai Bizantini, è lecito pensare che i Longobardi si spingano più a Nord, fino a metter subito piede dalle nostre parti?
Forse sì. Ma forse anche no.

Il torrione difensivo di Torba Castelseprio prima dei restauri del FAI

A questo punto dobbiamo ritirare in ballo la fortezza di Castelseprio, già parte in epoca tardo romana di una linea difensiva, che andava da Como fino a Novara, e sotto la cui ala protettrice rientrava con tutta probabilità anche il nostro paese.
Il suo castrum è già stato devastato da quell’incendio, di cui abbiamo parlato a proposito della guerra gotica, oppure è proprio durante l’invasione longobarda che avviene la sua distruzione? O magari è stato già riparato e rimesso in funzione? E in questo caso, chi sono gli occupanti?
I Bizantini, ci verrebbe da rispondere; ma potrebbero anche essere dei Goti passati al soldo di Costantinopoli, che ora non avrebbero problemi ad aprire le porte ai Longobardi, loro “fratelli” di stirpe germanica, con i quali hanno parecchie cose in comune, comprese certe somiglianze linguistiche.
Sono tutte domande destinate a restare senza risposta, in attesa che scavi più approfonditi nel sito archeologico – che giusto dieci anni fa è divenuto patrimonio dell’UNESCO – ci aiutino a far luce.
Una cosa però è certa: la resistenza bizantina, dalle valli bergamasche, passando per il basso Lario, il Verbano, fino a raggiungere la Val d’Ossola, va avanti per parecchi anni. A guidarla è tale Francione, un nome che ci rimanda ai Franchi, dai quali forse discende e ai quali forse ancora appartiene, pur essendo al servizio dell’Impero Romano d’Oriente. Fatto sta che costui svolge con tanta diligenza e perseveranza il proprio lavoro, che il presidio dei Graeculi sull’Isola Comacina, sul lago di Como, resisterà fino al 588, cioè vent’anni dopo la calata dei Longobardi nella nostra Penisola. Nel frattempo Alboino è calato nella tomba da un pezzo, così come la presunta mandante del suo assassinio, la moglie Rosmunda, e il di lei complice Elmichi.
In questo ventennio, dunque, il nostro è un territorio di confine, in balia di vecchi e nuovi padroni, mentre Mediolanum perde molta della sua già esigua importanza a favore di Ticinum, che assurge a capitale del nuovo regno.
Nel 590 Costantinopoli decide di giocare le sue ultime carte per riprendersi il Nord Italia e si allea coi Franchi, che valicano per la terza volta le Alpi (un’altra “visitina” ce l’avevano fatta nel 576) e aggrediscono i Longobardi, spesso incapaci di difendersi in campo aperto, ma ormai al sicuro all’interno delle loro fortezze, quasi sempre ereditate dai Romani e tutte collocate in punti altamente strategici. Il castrum di Sibrium (Castelseprio) è una di queste e, come la maggior parte delle sue sorelle, resiste ai nemici, i quali però, come sovente accade in casi del genere, non mancano di rifarsi, saccheggiando i territori circostanti: il nostro non fa eccezione.
Il previsto ricongiungimento delle forze franche provenienti da nord, che arrivano fino alle porte di Verona, con quelle bizantine provenienti da sud, che conquistano addirittura Mantova, non avviene. La singolare alleanza si sfalda ancora prima di essere completata, grazie non solo alla strenua resistenza longobarda, ma anche all’incapacità degli aggressori di saper sostenere lunghi assedi e al rapido diffondersi di malattie e pestilenze tra le truppe.
Costantinopoli rinuncia così per sempre a mettere le mani sulla parte settentrionale della pianura padana e tra Franchi e Longobardi comincia un lungo periodo di pace, che, a parte qualche episodio isolato, durerà quasi un secolo e mezzo e che porterà vantaggi a entrambi i popoli. Si pensi per esempio a re Liutprando, che agli inizi dell’ottavo secolo fornirà un aiuto determinante a Carlo Martello nel respingere la minaccia araba.
Purtroppo però le cose non fileranno lisce fino alla fine, come vedremo nel prossimo capitolo, e l’epilogo sarà ben diverso.
Nel frattempo, per chi volesse approfondire gli argomenti, consigliamo alcuni testi.

“Historia Langobardorum” di Paolo Diacono;
“Storia dei Longobardi” di Jörg Jarnut (Piccola Biblioteca Einaudi);
“I Longobardi – Dalle origini mitiche alla caduta del Regno d’Italia” di Nicola Bergamo (LEG edizioni);
“I Longobardi e la guerra” Autori Vari (Viella)

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Da Odoacre alla Guerra Greco – Gotica https://www.artevarese.com/da-odoacre-alla-guerra-greco-gotica/ https://www.artevarese.com/da-odoacre-alla-guerra-greco-gotica/#respond Thu, 03 Jun 2021 10:00:49 +0000 https://www.artevarese.com/?p=60935 Avevamo lasciato Odoacre al problema di dover spartire tra i suoi soldati un terzo delle terre, o un terzo della rendita che queste garantivano, la questione non è chiara. Il nostro buon generale erulo è probabile che si trovi di fronte agli stessi problemi incontrarti da Asterix, quando, nel film “Le dodici fatiche di Asterix”, […]

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Avevamo lasciato Odoacre al problema di dover spartire tra i suoi soldati un terzo delle terre, o un terzo della rendita che queste garantivano, la questione non è chiara. Il nostro buon generale erulo è probabile che si trovi di fronte agli stessi problemi incontrarti da Asterix, quando, nel film “Le dodici fatiche di Asterix”, vaga per i palazzi romani alla ricerca del Lasciapassare A/38. Roma infatti è decaduta sotto tutti i punti di vista (edifici, strade, esercito…), ma se c’è una cosa che è rimasta praticamente intatta è la sua elefantiaca macchina burocratica.
Forse per ovviare al problema, invece di accontentarsi delle terre a disposizione, preferisce conquistarne di nuove, espandendo il suo dominio sino in Dalmazia, nel Norico (l’odierna Austria) e arrivando alla punta dello stivale.

L’effige di Tedorico il Grande su una moneta d’epoca

Regge le sorti della Penisola per una dozzina d’anni fino a quando, nell’agosto del 489 d.C., ecco arrivare gli Ostrogoti, ai quali i Bizantini, anche e soprattutto per toglierseli dai piedi, hanno deciso di “regalare” l’Italia.
A guidarli è un uomo destinato a lasciare il segno, Teodorico, il quale sconfigge Odoacre, che ora si fa chiamare Rex Germanorum, prima sull’Isonzo e poi a Verona. L’erulo scappa a Ravenna, l’ostrogoto non lo insegue e preferisce raggiungere Mediolanum. Qui l’invasore si imbatte in un altro erulo, il generale Tufa, che invece di difendere la città, gli si sottomette, gli giura fedeltà e viene perciò spedito ad assediare la capitale sulle rive dell’Adriatico.
Una volta giunto lì, tuttavia, costui cambia di nuovo bandiera e torna dalla parte di Odoacre.
Se vuoi una cosa fatta bene, fattela da solo” forse pensa Teodorico mentre mette sotto assedio Ravenna, che però cade solo all’inizio del 493: Odoacre e i suoi familiari vengono massacrati alla fine di un banchetto di finta riappacificazione.
Ecco la mirabile sintesi che Montanelli e Gervaso, nella loro “Storia d’Italia”, fanno di quel periodo e che può fornirci un utile quadro di quali fossero le condizioni in cui versava pure il nostro territorio alla fine del V secolo:
“La conquista della Penisola era durata in tutto cinque anni: gli eserciti avevano desolato le campagne, spianato le città, trucidato gli abitanti. Ma oltre che dalla guerra la popolazione era stata falciata dalle carestie, dalle pestilenze e dagli immancabili cataclismi naturali.
Lo storico Ennodio racconta che la fame uccideva chi sopravviveva alla spada. Odoacre non aveva governato né meglio né peggio dei suoi predecessori. Non aveva costruito nulla e nulla aveva distrutto. Aveva conservato l’Italia come l’aveva trovata: una terra di rapina e di conquista alla mercé di tutti. Con Teodorico molte cose cambiarono e la situazione migliorò.”

In effetti con il barbaro Teodorico, un po’ alla volta e non senza sforzi, la situazione migliora. Il re degli Ostrogoti olia i meccanismi della macchina amministrativa romana e divide l’Italia in diciassette provincie, governate da altrettanti Presidi, che rispondono tutti al Prefetto del Pretorio, il quale a sua volta rende conto al sovrano.

Il generale Belisario raffigurato in un mosaico

Le provincie di frontiera, ed è assai probabile che il territorio varesino rientri in una di queste, sono invece affidate a dei Conti, ovvero Generali con dimostrate capacità militari, in grado di difenderle da possibili attacchi esterni.
I Goti, a differenza di altre popolazioni germaniche, sembrano adattarsi alla vita stabile e, abbandonando il loro consueto nomadismo, si rivelano discreti agricoltori, anche se, per precisa scelta del loro re, non si integrano con le popolazioni locali.

Nell’ultimo periodo della sua vita Teodorico soggiorna spesso a Ticinum, l’attuale Pavia, forse anche nel vano tentativo di ribadire il proprio distacco dagli intrighi dei Bizantini, i quali, dopo avergli spianato la strada per la conquista dell’Italia, ora paiono intenzionati a riprendersela.
In questo loro intento, anche se quasi sempre in modo occulto, sono spalleggiati dalla Chiesa di Roma, che, proprio grazie alle riforme attuate dal re goto, ha visto gradualmente erodere il proprio potere, anche a livello locale.
Teodorico muore all’età di 72 anni, il 30 agosto del 526, spianando di fatto la strada alla riconquista della Penisola da parte dell’esercito di Costantinopoli.
La guerra gotico bizantina comincia nel 535 e dura la bellezza, per modo di dire, di diciotto anni, causando più danni all’Italia di quanti non ne abbiano provocati tutte le invasioni barbariche messe insieme nei secoli antecedenti. I contrasti tra i due generali al comando dei Greci, Belisario e Narsete, il primo caro all’imperatore Giustiniano, il secondo all’imperatrice Teodora, producono disastri inimmaginabili, primo fra tutti la distruzione di Mediolanum, l’attuale Milano, e lo sterminio dei suoi trentamila abitanti.

Anche il nostro territorio non scampa alle devastazioni.

A Castrum Sibrii o Severum (oggi Castelseprio), un presidio romano attivo già dal quarto secolo per fronteggiare le invasioni da nord, esistono tracce di un grande incendio, che potrebbe averlo danneggiato, del tutto o in parte, proprio in questo periodo.
Alla fine, dopo alterne vicende, nel 553 sono i Bizantini a spuntarla. Già, ma a quale prezzo? Ce lo dice lo storico Procopio:
“…andavano sui monti a raccogliere ghiande per farne un surrogato del pane. Quelli che si ammalavano diventavano pallidi e smunti, la pelle si induriva e si contraeva sulle ossa. Le loro facce assumevano un’espressione stupefatta, gli occhi si dilatavano in una specie di spaventosa follia. Alcuni morivano per aver mangiato troppo, quando trovavano cibo. I più erano talmente dilaniati dalla fame che, se vedevano un ciuffo d’erba, si precipitavano a sradicarlo.”

3-La viabilità della Lombardia nord occidentale nel VI secolo d.C.

Roma, che nel periodo augusteo ospitava un milione di persone, ora non ha più di quarantamila abitanti. Dalle Alpi fino alla punta meridionale della Sicilia forse non ne restano neanche quattro milioni.
Lasciamo un attimo le vicende storiche e occupiamoci  di geografia o, meglio, di viabilità locale. Come si può vedere dalla figura 3, tutto l’alto corso dell’Olona è di fatto escluso dalle principali strade che collegano Mediolanum agli altri importanti centri della zona.
Le direttrici che conducono verso nord e verso nord ovest transitano lungo l’attuale strada statale del Sempione.
La situazione cambierà solo intorno all’ottavo secolo, quando a nord di Legnano, nell’attuale Castellanza, verrà dato nuovo lustro a una strada che collega l’odierna statale del Sempione a Castelseprio, centro del quale abbiamo già parlato e che avrà un ruolo fondamentale nella storia di tutta la Lombardia.
Tale strada (figura 4) , che lambisce il lato occidentale della Valle Olona, passando per Cairate, recherà maggiori benefici al paese di Olgiate, destinato a divetare sede di una Pieve.

4- La viabilità della Lombardia nord occidentale nel VII e VIII secolo d.C.

Torniamo ai nostri Bizantini, che però a quei tempi non venivano chiamati così, ma Romani d’Oriente, Romei oppure, non senza una nota dispregiativa, Graeculi.
L’hanno spuntata sui Goti, è vero, ma si ritrovano padroni del nulla. Provano a rimettere in piedi la loro macchina amministrativa, ma non hanno le capacità e neppure le risorse per migliorare la situazione economica. La circolazione di moneta è quasi sparita: non solo nelle campagne, ma perfino nelle città, si torna al baratto. Con un misero prelievo fiscale, che oltretutto si basa in modo prevalente sui magri prodotti della terra, non è possibile far funzionare uno Stato degno di tal nome.
Come se non bastasse, sul nord della penisola incombe una nuova minaccia, quella dei Franchi, un’altra gens germanica, divenuta molto potente e che, approfittando della situazione di debolezza imperiale, torna ad affacciarsi al di qua delle Alpi. È proprio il caso di dire “torna”, perché questi ferocissimi guerrieri biondi, già nel 539, approfittando della guerra in corso, erano venuti a trovarci, lasciando anche nelle nostre prealpi i consueti souvenir: villaggi saccheggiati e dati alle fiamme, raccolti razziati, uomini uccisi e donne stuprate.
Questa volta i Bizantini, consapevoli dei propri oggettivi limiti militari, per tenere in vita il loro dominio preferiscono tornare a un loro collaudato sistema, che in fondo ha sempre funzionato e per secoli ancora funzionerà: la trattativa. Che si svolga alla luce del sole, o più spesso nell’ombra, la diplomazia bizantina, divenuta proverbiale e malfamata al tempo stesso, quasi sempre produce i suoi risultati. I Franchi, da potenziali nemici, vengono presto trasformati in preziosi alleati e in questo ambiguo ruolo andranno ad affrontare uno dei periodi cruciali della storia italiana.

Alessandro Cuccuru

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L’Alba del Medioevo https://www.artevarese.com/lalba-del-medioevo/ https://www.artevarese.com/lalba-del-medioevo/#respond Mon, 24 May 2021 14:00:55 +0000 https://www.artevarese.com/?p=60734 «Perché il medioevo inizia proprio nel 476 dopo Cristo?» mi chiese un giorno un giovane commercialista. «Non potevano fare cifra tonda e farlo iniziare nel 500?» Al di là della comprensibile passione che può nutrire per le cifre tonde chi per lavoro si occupa di numeri, la domanda la dice lunga su quanto la Storia […]

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«Perché il medioevo inizia proprio nel 476 dopo Cristo?» mi chiese un giorno un giovane commercialista. «Non potevano fare cifra tonda e farlo iniziare nel 500?»
Al di là della comprensibile passione che può nutrire per le cifre tonde chi per lavoro si occupa di numeri, la domanda la dice lunga su quanto la Storia sia amata e conosciuta nel nostro Paese.
In ogni caso, poiché temo che il professionista in questione non sia l’unico a porsi tale interrogativo, spendere qualche parola sulla ragione di questa data, e sulle implicazioni che potrebbe aver avuto anche per il nostro territorio, mi pare doveroso.

Il regno di Odoacre nella sua massima espansione.-Thomas Lessman

In quel lontano 476 d.C. non esistono i giornali, non esistono radio o televisione, non esiste internet e non esistono i social network. Niente smartphone, niente sms, niente whatsapp… Che vitaccia, diciamolo! Senza foto, senza post, senza tweet, come si fa a sapere se la vicina di casa rispetta la raccolta differenziata o a conoscere i dettagli dell’ultimo DPCM?
In effetti per gli abitanti della pianura padana il 476 è un anno come un altro, di sicuro non molto allegro. Non sanno di vivere un passaggio epocale, i nostri antenati. Forse non sanno nemmeno che Odoacre, il generale barbaro che ha destituito l’imperatore Romolo Augusto, ha già rispedito a Costantinopoli le insegne imperiali: sigillo, scettro, diadema e porpora. Non lo sanno e anche se lo sapessero, è probabile che a loro importerebbe ben poco: hanno altri problemi per la testa, tra i quali una grave crisi economica, cominciata ben prima dello spostamento della capitale dell’Impero Romano d’Occidente da Mediolanum a Ravenna, e aggravatasi sempre più dall’inizio del secolo.
Non è però solo colpa dei barbari, che da Alarico in poi scorrazzano in lungo e in largo in tutta la penisola, prendendosi quello che gli pare dove e quando gli pare, se le cose non vanno per il verso giusto.
I cosiddetti “barbari” infatti ce li abbiamo già in casa, e da un bel pezzo: sono costoro ad avere in mano le redini dell’ormai non più glorioso esercito romano, nel quale, entrati all’inizio come semplici ausiliari, hanno via via scalato tutti i gradi della scala gerarchica e adesso dettano legge.
Gli ultimi imperatori d’occidente altro non sono che semplici fantocci, con la lama puntata alla gola da parte di generali spietati e senza scrupoli, quasi tutti di origine germanica. La differenza tra Odoacre, magister militum appartenente, pare, alla potente tribù degli Eruli, e i suoi predecessori è solo quella di rinunciare a nominare pure lui un burattino, che esegua le sue volontà alla lettera, accontentandosi invece di richiedere la carica di patrizio all’allora imperatore d’oriente, Zenone.
Si tratta però di una differenza sostanziale ed è proprio per via di questo cambio di atteggiamento che gli storici in seguito decreteranno in modo ufficiale la fine dell’Impero Romano d’Occidente.
Odoacre, insomma, l’imperatore non lo vuole fare e nemmeno si ritiene, come i generali barbari che l’hanno preceduto, investito dell’autorità di nominarne uno.
Sulle effettive ragioni di tale scelta, lasciamo gli storici, quelli veri, a discutere, per occuparci piuttosto di un altro perché, che forse ci riguarda più da vicino, ovvero la possibile ragione del colpo di Stato di Odoacre.

Il “solidus” fatto coniare da Odoacre, con l’effige dell’imperatore Zenone

In molti sanno che il nome soldato deriva da solidus, ovvero la moneta con cui era pagato. Ma alla fine del quinto secolo l’Impero non riesce più a retribuire i mercenari germanici che aveva delegato a difenderlo: il prelievo fiscale, ridotto ai minimi termini, non è più in grado di mantenere le strutture che avevano reso grande Roma, prima di tutto le strade; men che meno può dar da mangiare a uomini armati, ai quali non può più prospettare il miraggio di un bottino, perché le conquiste son finite da un pezzo e adesso bisogna pensare soprattutto a difendersi.
Ecco allora tornare un’antica promessa, o pretesa, a seconda dei punti di vista, vecchia quanto il mondo: terra in cambio di guerra. I Germani reclamano dunque che venga loro concesso un terzo delle terre italiche. Sì, ma in quale modo? Vogliono insediarvisi come coloni, oppure riscuotere comodamente un terzo delle rendite? Altro tema sul quale lasciar discutere gli storici.

Moneta con l’effige di Odoacre

È poco probabile però che, dopo generazioni il cui unico mestiere è quello delle armi, i soldati germanici decidano di lasciare la spada, per imbracciare vanga e aratro. D’altra parte, è altrettanto difficile pensare a possedimenti terrieri che possano davvero garantire un reddito certo e sicuro: l’Italia è spopolata da invasioni e carestie e, senza guerre di conquista, l’afflusso di schiavi da mettere a zappare le zolle è ormai un lontano ricordo.
Fatto sta che Odoacre, affermando di voler dare ai suoi uomini quel sospirato premio, uccide il suo predecessore, Oreste, altro generale barbaro, al quale era forse legato da vincoli di parentela, risparmiandone il figlio adolescente Romolo Augusto, spregiativamente definito “Augustolo”.
Chissà se anche nelle nostre terre si presentano Eruli, Sciri, o Turcilingi, o altri membri delle tribù germaniche che compongono l’esercito imperiale a reclamare un terzo delle terre o un terzo del raccolto? Difficile dirlo: le notizie su questa spartizione sono scarse anche per il resto d’Italia. E riuscirà alla fine Odoacre a mantenere la promessa fatta ai suoi guerrieri?
Per saperlo, non vi resta che continuare a seguire i prossimi appuntamenti con la nostra “Bella Storia”.
Nel frattempo, se avete ancora un po’ di pazienza, vi lascio a un brano tratto dal mio primo romanzo, “Sibrium” (Aporema Edizioni), nel quale immagino un dialogo proprio tra il nostro buon Odoacre e un senatore romano, che discutono tra loro su quanto fosse intricata la situazione politica in quel fatidico 476 d.C.

“Publio Emilio attese che Odoacre si calmasse e tornasse a sedersi, quindi riprese a parlare in tono pacato, come se stesse ragionando per proprio conto.
«Dunque, ricapitolando, la situazione è questa: attualmente tu sei magister militum e hai il comando dell’esercito in Italia, cosa che in pratica avevi già anche prima; però non puoi dire di essere a tutti gli effetti anche padrone dell’Italia, perché ti manca il titolo di patrizio, giusto? Nel frattempo hai deposto un imperatore fanciullo, Romolo Augusto, che tuttavia per il suo collega d’Oriente era già a tutti gli effetti un usurpatore, visto che suo padre Oreste, a sentire i Bizantini, non aveva alcun diritto di metterlo sul trono. Poi tu hai spedito le insegne imperiali a Costantinopoli, dove le hanno diligentemente prese in custodia, guardandosi bene però dal recapitarle in Dalmazia, a Giulio Nepote, il quale, sempre secondo i Bizantini, sarebbe a tutti gli effetti il legittimo detentore dello scettro di Occidente…»
Il vecchio senatore non riuscì a nascondere un sorrisetto sarcastico e, grattandosi i radi capelli bianchi, riprese il discorso con la stessa studiata calma di prima.
«Quindi allo stato attuale abbiamo in Oriente un imperatore, Zenone, il quale, sventato il complotto contro di lui, siede in modo legittimo sul suo trono. E fin qui, nulla da eccepire… Poi però abbiamo un altro legittimo imperatore d’Occidente, Giulio Nepote, che se ne sta fuori dall’Italia; ma che è privo delle sue legittime insegne, visto che i Bizantini preferiscono tenersele a casa loro. Infine ci sei tu, Odoacre, che comandi l’esercito in Italia e che quindi in pratica detieni il potere; ma che in teoria non potresti comandare sui civili, perché non hai alcun titolo per farlo. Dimentico nulla?»
«» rispose seccato il re.
«Cosa?»
«La questione delle terre.»
«Ah, già: dimenticavo! Il famoso terzo che hai promesso di concedere ai tuoi veterani. A che punto sei con la spartizione?»”

Alessandro Cuccuru

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Bella Storia! https://www.artevarese.com/bella-storia/ https://www.artevarese.com/bella-storia/#respond Thu, 20 May 2021 18:30:10 +0000 https://www.artevarese.com/?p=60693 Quand’è che una storia diventa una bella storia? Facile, verrebbe da dire, quando finisce bene, magari col celebre “vissero tutti felici e contenti”. Per me invece una storia diviene bella quando si è bravi a raccontarla; vale per le barzellette, ma vale anche per gli episodi tristi, che hanno comunque sempre una lezione da impartirci. […]

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Quand’è che una storia diventa una bella storia? Facile, verrebbe da dire, quando finisce bene, magari col celebre “vissero tutti felici e contenti”.
Per me invece una storia diviene bella quando si è bravi a raccontarla; vale per le barzellette, ma vale anche per gli episodi tristi, che hanno comunque sempre una lezione da impartirci.
E quand’è che una storia si trasforma in Storia, con la esse maiuscola? Anche in questo caso la risposta parrebbe semplice: quando riguarda avvenimenti epocali o personaggi famosi.
A mio avviso, tuttavia, possiamo replicare la risposta di prima: quando c’è qualcuno bravo a raccontarcela.
Pensate, solo a titolo di esempio, ad Alessandro Barbero, che pur non avendo un canale tutto suo su youtube, ha più visualizzazioni di tanti cosiddetti influencer. I suoi video, anche quando sono piuttosto lunghi, vengono guardati con attenzione fino alla fine, perché la gente ama viaggiare nel tempo ed essere trasportata in altre epoche; ma desidera pure che il viaggio sia comodo, interessante, ricco di aneddoti e di curiosità; non vuole ascoltare sermoni o sorbirsi una sfilza di date.
A volte, durante una cena, mi trovo a discutere delle ricerche che mi sobbarco per scrivere i miei romanzi. Preso dall’entusiasmo e dalla foga, mi rendo conto di parlare troppo e temo di monopolizzare l’attenzione. Allora mi fermo e chiedo ai commensali se li sto annoiando e se non sia il caso di smettere. La risposta, bontà loro, è quasi sempre la stessa: «No, continua pure.» E aggiungono: «Se a scuola la Storia ce l’avessero spiegata come stai facendo tu stasera, l’avremmo studiata volentieri.»
A differenza loro, io sono stato fortunato. Fin dalle elementari mi sono imbattuto in insegnanti che, oltre che preparati, erano grandi affabulatori: amavano la loro materia ed erano in grado di trasmettere questo loro amore.
Seguendo indegnamente le loro orme, grazie alla rubrica che parte oggi, proverò pure io a trasmettervi la mia passione per la Storia. Mi sforzerò di farlo attraverso un linguaggio semplice, colloquiale e, quando serve, anche un po’ irriverente, che forse susciterà le critiche dei benpensanti: un rischio che però vale la pena di correre, se vogliamo restituire un po’ di vitalità a questa tanto meravigliosa quanto trascurata materia.
Mi occuperò soprattutto di storia locale, della nostra provincia e della nostra regione, ma non mancheranno le incursioni in altri territori, anche molto lontani da noi.
Pure voi potrete contribuire a questo mio viaggio nel passato, proponendo mete e argomenti che vi stanno a cuore e magari, perché no, suggerendo fonti nascoste alle quali attingere.
Per chiudere questa breve presentazione, due parole sul titolo, scelto in accordo con la nostra esimia direttrice. “Bella storia!” era un’espressione molto in voga, nella mia ormai lontana gioventù, come positivo commento conclusivo a qualsiasi episodio divertente, raccontato agli amici o alle amiche nelle varie occasioni conviviali.
Ho chiesto a mia nipote se per caso i suoi coetanei usassero ancor oggi tale espressione e mi ha guardato stranita, come se fossi appena tornato sul pianeta terra da un viaggio intergalattico. Insomma l’espressione “bella storia!”, dopo poco più di una generazione, è già diventata essa stessa parte della storia, in questo caso dell’evoluzione linguistica e gergale. Se si tratti di una storia, con la esse minuscola, o di una Storia, con la esse maiuscola, spetterà ai posteri stabilirlo.
Per il momento, allacciate con cura le cinture, perché – mi dicono – sulla macchina del tempo si balla parecchio.

Alessandro Cuccuru

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