La dominazione longobarda nella maggior parte della Penisola dura oltre due secoli, dal 568 al 774 d.C., e al sud si protrae addirittura fino al 1053, anno in cui il Ducato di Benevento cade sotto il dominio normanno di Roberto il Guiscardo. Non è quindi possibile pensare che, durante tutto questo periodo, l’organizzazione sociale longobarda rimanga immutata. Cercheremo pertanto di fornire un quadro generale dei principali meccanismi di potere che regolano tale organizzazione, pur consapevoli che le eccezioni sono tante, variabili nel tempo e pure nello spazio, perché non dappertutto ci si regola allo stesso modo.
Quando si pensa a una società barbarica alto medioevale, di solito ci si immagina una struttura di tipo piramidale, con al vertice il RE e sotto tutti gli altri; in internet si trovano anche diversi schemi che traducono in immagini questa teoria, la quale, pur costituendo un buon punto di partenza, presenta parecchi limiti, il primo dei quali riguarda proprio la figura del monarca.
È opportuno infatti rammentare l’atavica allergia delle genti del nord – e i Longobardi non fanno eccezione – a farsi guidare da un solo uomo in tempo di pace. Insomma, caro boss dei boss, quando c’è da menar le mani ti seguiamo, ti veniamo dietro e, nel caso, siam pure disposti a farci ammazzare per difendere il tuo onore, oltre che il nostro; ma finita la guerra, torna a farti gli affari tuoi, che noi ci facciamo i nostri.
Ora, questo tipo di filosofia va benissimo finché fai parte di una tribù (fara nel nostro caso) che combatte unita ad altre tribù; ma funziona un po’ meno quando devi governare per un lungo periodo un territorio molto vasto, come appunto l’Italia.
Fatto sta che la monarchia longobarda inizialmente non ha un carattere ereditario, anzi, a voler ben guardare non l’avrà mai del tutto. Prendiamo ad esempio Desiderio, l’ultimo sovrano, il quale, pur non avendo alcuna intenzione di abdicare, per evitare le solite sanguinose lotte di successione, pensa bene di associarsi al trono come “re in seconda” il figlio Adelchi. Non possiamo stabilire se, dopo la sua morte, la trovata avrebbe avuto successo oppure no, perché quel trono glielo sfilerà da sotto il sedere il pio Carlo, re dei Franchi, solerte esecutore del volere papale.
In mancanza di una dinastia consolidata, a chi spetta dunque il compito di scegliere il re? Ai nobili o, per meglio dire, ai capi militari, riuniti in un’assemblea chiamata Gairethinx.
E quando si svolge questa sorta di elezione? In primavera, quando, finito l’inverno, non ci sono problemi a reperire il carburante per i mezzi di trasporto: l’erba per i cavalli.
Ma dove si svolge il Gairethinx? Di solito nella capitale Pavia, che però allora si chiamava ancora Ticinum.
Immaginiamoci allora questo rave party ante litteram, dove i barbuti e capelloni (ma con la nuca rasata) guerrieri longobardi arrivano da ogni dove, sparandosi a palla nelle cuffiette la hit di Fabio Rovazzi “Andiamo a comandare” o, più probabilmente, “cantando giulive canzoni di guerra”, come recita il primo coro del “Adelchi” di Alessandro Manzoni.
Una volta arrivati a destinazione, tra titaniche pacche sulle spalle, generose bevute e qualche immancabile rissa, che spesso finisce a spadate, qualche volta ci si dimentica lo scopo principale del raduno: scegliersi un re. È quello che succede per un decennio, tra il 574 e il 584, quando, nonostante il dominio sia ancora fragile e abbia bisogno di una guida sicura, non si riesce a trovare un accordo.
Per fortuna dal 584, con la salita al trono di Autari, le cose si stabilizzano e la piramide sociale, per quando traballante, comincia a prender forma.
Chi troviamo al secondo gradino di questa piramide imperfetta? I Duchi, dal Latino Dux, i quali sono a capo di un territorio più o meno esteso, chiamato Ducato o Judicaria, dove esercitano, con notevole autonomia, un potere militare, amministrativo e giudiziario. Spesso la loro autorità entra in contrasto con quella del sovrano e non sono rari, i casi di tradimento e cospirazione, che portano alla sua deposizione o addirittura alla sua uccisione; così come non sono rari i casi in cui, per esautorare un duca, il re non ricorre alle carte bollate bensì alla decapitazione. Nella storia longobarda, un discorso a parte meritano i ducati di Spoleto e di Benevento, che, in forza del loro isolamento geografico, spesso saranno considerati da chi li comanda come dei veri e propri regni, dove l’autorità di Pavia non arriva o arriva in modo molto blando.
Sempre nel secondo gradino della nostra piramide, a capo di una Judicaria può anche esserci un Gastaldo, con gli stessi poteri di un duca, se si escludono quelli militari. A costui infatti non è concesso di comandare un piccolo esercito personale, né di passare il proprio titolo in eredità ai figli. Egli dipende in modo diretto dal re, di cui amministra i domini personali, anche quando questi si trovano all’interno di un altro ducato. Facendo riferimento alla nostra zona, la Judicaria del Seprio, si estende da Bellinzona fino a Parabiago e da Como fino a Novara, ed è con tutta probabilità retta proprio da un gastaldo, visto che non abbiamo alcuna notizia di duchi vissuti da queste parti. Conferma tale ipotesi il fatto che a Castelseprio, nel VIII secolo, esiste una zecca reale, testimoniata dal tremisse aureo di Desiderio, recante la dicitura “Flavia Sibriot”, dove quel “flavia” indica appunto la diretta dipendenza dal re.
Tornando alla piramide, al terzo gradino abbiamo lo Sculdascio, il cui ruolo varia da esattore di tributi, a magistrato incaricato di amministrare la giustizia – a volte anche in modo itinerante – fino a quello di una sorta di “sindaco”, incaricato di tenere sotto controllo piccole porzioni di territorio.
Al quarto gradino ecco gli Arimanni, ovvero gli uomini dell’esercito, gli unici che, specie nella prima fase della dominazione, possono portare armi.
Sotto di loro vengono gli Aldii, o semiliberi, quasi tutti appartenenti all’etnia italica, o a quella di altri popoli che hanno valicato le Alpi insieme con i Longobardi.
Alla base della piramide ci sono i Servi, la cui condizione non è dissimile a quella degli schiavi dell’ormai defunto impero romano: non hanno diritti e su di loro i padroni hanno potere di vita e di morte.
Come premesso all’inizio dell’articolo, questa divisione sociale non è rigida e immutabile e, specie verso il tramonto del regno longobardo, le diverse categorie divengono permeabili le une alle altre. Alcuni Arimanni caduti in disgrazia, per esempio, non saranno più in grado di provvedere al proprio armamento, mentre diversi Aldii saranno chiamati a fornire il proprio contributo all’esercito.
Come al solito, per gli approfondimenti, vi consigliamo qualche testo, in questo caso “Historia Langobardorum” di Paolo Diacono e “Storia dei Longobardi” di Jörg Jarnut (Piccola Biblioteca Einaudi).