“E' un'antologia di pezzi di scultura, pittura e grafica di un ventennio centrale per l'arte italiana dell'età contemporanea, intendendo l'aggettivo in senso accademico, dal neoclassicismo dell'età dei Lumi ad oggi”.
Così Antonello Negri, professore ordinario all'Università Statale di Milano presenta la collezione Gian Ferrari. Con alcuni capolavori assoluti, da museo, specifica.
Da museo, vien quasi da aggiungere, e da focolare, da divano, da intimità; sono veramente il cuore pulsante, l'anima viva del legato che la collezionista ha voluto lasciare al Fai.
L'Amante morta di Arturo Martini, del 1921, esposta per la prima volta a Roma nel 1925.
Ispirata al modello classico di Bartolini, La fiducia in Dio, è un gesso policromo di rara icasticità nei volumi. In una mano uno specchio, un libro aperto in grembo, ma lo sguardo rivolto in alto in una smorfia di dolore, per l'abbandono dell'amato.
I due Morandi: due Nature morte. La prima del 1937, la cui più antica citazione bibliografica risale al 1950 per mano di Francesco Arcangeli. “Toni terrosi”, “sagome simili ad ombre”, scrive la Torelli, e uno strepitoso gioco dei blu che purtroppo le riproduzioni fotografiche rendono poco e male.
La secondo appartiene ad un periodo di poco successivo, al 1938, ma nel frattempo nella tavolozza del monacale artista bolognese si è ristabilito il rigore compositivo, rifatto vivo il colore, pacata la visione.
Il ritratto di Alfredo Casella di Giorgio De Chirico, schedato in catalogo da Ilaria Torelli, è del 1924, già esposto a Berlino e a New York al principiare dei Trenta, è un persuasivo esempio di eroe borghese, intellettuale musicista, collezionista. Una tempera all'uovo, semplicemente straordinario.
La famiglia del pastore di Mario Sironi, infine. L'opera che in casa Gian Ferrari ha il posto d'onore in soggiorno, proprio sopra il divano.
Il quadro 167×210 cm è del 1929, esposto per la prima volta a Venezia nel 1932 alla XVIII Biennale di Venezia. Ed è ancora Ilaria Torelli che ne ricompone la vicenda, benché di questa opera molto già ne sia scritto. Appartenne all'architetto Marcello Piacentini; Agnol Domenico Pica ne suggerì il sottotitolo esiodeo Le Opere e i giorni.
Ma potrebbe, scrive la Torelli, rivestire un significato religioso, una rivisitazione del tema sacro della Fuga in Egitto. Da una parte l'uomo quasi nudo con il bastone da rabdomante, dall'altra la donna con il bambino, sullo sfondo natura brulla e un accenno di viadotto.
Un'opera astorica, monumentale, piena di speranza.
Ci sono altri Sironi in mostra, c'è un altro fenomenale Funi, c'è un nudo di Felice Casorati, esposto solo in occasione di una antologica dell'artista ad Acqui Terme nel 1999.
C'è più di un motivo insomma per non perdere questa mostra, che fortunatamente, nella sua interezza, intelligentemente, non andrà perduta.