Giuseppe BortoluzziGiuseppe Bortoluzzi

Pari dignità – "Perché organizzai mostre di fotografia a Varese? Perché mi piaceva, perchè c'era quell'effetto anticipatore, di sopresa, anche rispetto a Milano, e sopratutto perché volevo che si capisse che era legittimo che la fotografia venisse integrata con pari dignità nei musei alle altre arti visive".

Il borghese illuminato – Ottanta e passa anni, eleganza mitteleuropea, quell'origine veneziana che non si stempera nonostante viva a Varese ormai dall'immediato dopoguerra, Giuseppe Bortoluzzi, notaio e padre di notai, volentieri rievoca l'altro coté della sua vità: quello di animatore culturale, di sodale di artisti, di borghese illuminato che si spende in prima persona.
In imprese che a rileggerle ora hanno il sapore del pionierismo più spinto. Molte sono già state ampiamente storicizzate: come le mostre di scultura all'aperto, o l'esperienza ancor più precoce della libreria-galleria Il portico, con l'amico di una vita Dante Isella.

Fotografia che passione – Ma c'è un aspetto che forse è ancora rimasto nell'ombra nell'attività di Giuseppe Bortoluzzi, a dispetto di alcuni suoi libri fotografici, per altro usciti per la cura di penne illustri come Carlo Bertelli. Ed è la sua passione per la fotografia; e per la divulgazione della fotografia. E quanto questo secondo aspetto si sia manifestato, in tempi non banali, anzi assolutamente precoci per Varese,  in iniziative non certo spendibilissime, ma al contrario di taglio da fine conoisseur.

La Gondola – Nel 1957, Bortoluzzi organizza la mostra del gruppo veneziano "La Gondola", allora allestita all'Ateneo Varesino. "Decisi per La Gondola perché era un gruppo di artisti fotografi veneziani, ed io ero veneziano" è il suo ricordo di primo acchito. "Poi perché in quegli anni arrivò a Varese un giocatore veneziano, Garbosi, e non mi dispiaceva l'idea di unire idealmente la mia passione per la pallacanestro con quella per le foto". Spesso i particolari minuti sfuggono nel racconto a quest'uomo dagli occhi ancora vispi. In soccorso arrivano i documenti d'archivio, conservati gelosamente e la moglie Luciana, vera memoria storica della coppia.

Giuseppe BortoluzziGiuseppe Bortoluzzi

Bischof – Correva l'anno 1958 e dall'alta scuola raffinata de "La Gondola", Bortoluzzi sostenuto dall'allora Ente del Turismo, "sopportato più che aiutato" dall'amministrazione locale, alza il tiro e organizza questa volta a Villa Mirabello una personale del grande fotoreporter svizzero Werner Bischof, morto nel 1954, esponente di spicco di Magnum, tra i maggiori autori di reportage del dopoguerra, e collaboratore di punta di riviste come DuLife.

La Fotografia Oggettiva – Una pausa di due anni e poi nell'ottobre del 1960 arriva come un altro fulmine a ciel sereno la Subjektive Photographie, un centinaio di autentici capolavori in bianco e nero sulla scia della teorizzazione di Otto Steinert, tra le principali teste pensanti nel campo dell'evoluzione dell'estetica fotografica del dopoguerra. Splendido catalogo, stampato da L'ammonitore, tuttora esistente; quadrato, copertina nera, scritta scintillante in bianco, all'interno una selezione di una ventina di bianchi e neri tirati a lucido di  alcuni dei migliori fotografi della scuola soggettiva: Minor White, Làszlò Moholy-Nagy, lo stesso Otto Steinert, Paolo Monti, tra gli altri.

Primogenitura varesina – "Mostre di richiamo assoluto – si compiace ancora adesso Bortoluzzi – non a pagamento, naturalmente, ma visitate. Senza falsa modestia, ma mi posso attribuire il merito, in quella Varese, tutto sommato ancora chiusa, di aver aperto gli occhi a molti giovani su una fotografia che era ancora qualcosa di sconosciuto". E più di un giovane guardando quelle foto ha intuito che forse quello del fotografo potesse essere un mestiere d'artista e non solo d'artigiano". Mostre di richiamo, le prime in Italia, si può ben dire, grazie anche alla collaborazione di Lanfranco Colombo, il vero nume tutelare della fotografia in Italia, prima ancora che nascesse a Milano la sua galleria Il Diaframma. A Varese e a Bortoluzzi, dunque, quel che è di Varese e di Bortoluzzi: una sorta di primogenitura.

Mulas – Poi un periodo di silenzio. Un buco. Il lavoro di notaio, i figli, le proprie fotografie. Ma la passione non scema. Riemerge. E' il novembre 1974 e con un altro sodale di lunga data, il conte Panza allestisce nelle stanze allora ben più segrete di adesso della villa di Biumo una mostra dedicata ad Ugo Mulas, morto l'anno precedente, ma già consacrato tra i grandi maestri del rinnovamento fotografico italiano.

Francesco Paolo Michetti – L'avventura del divulgatore appassionato potrebbe finire qui, con la superba teoria di ritratti di artisti del geniale artista delle Verifiche. Ma Bortoluzzi, trova il modo di assemblare due anni dopo una preziosa retrospettiva all'interno della Biblioteca Civica dedicata a Francesco Paolo Michetti, artista eclettico, e sperimentatore ardito del mezzo fotografico a cavallo tra Otto e Novecento.

I giovani e la chiocciola – Secondo dinamiche consolidate chi fotografa e cura mostre, solitamente fonda sodalizi: anche Bepi Bortoluzzi ci ha provato, creando un gruppo di amatori della fotografia varesina. Forse è l'esperienza che gli è venuta peggio, o è si è incastrata nella generazione sbagliata. Nessuno degli iscritti nell'atto costitutivo ha avuto fama e gloria. "Ma a Varese è cresciuta una generazione di ottimi fotografi: da Carlo Meazza, a Paolo Zanzi, a Franco Pontiggia, a Vivi Papi, purtroppo questi ultimi due scomparsi. Poi c'è stato l'arrivo di Giorgio Lotti a fare un po' da "chioccia" con la sua esperienza".

Disponibile alla causa – Si sa che Varese, a parte questi episodi di cui il nostro è stato illuminato protagonista, edin altri in tempi più recenti, tentati ma lasciati cadere,  non è storicamente terreno fertile per la fotografia. Il materiale ci sarebbe, gli spazi a ben guardare si potrebbero trovare, eppure sembra mancare a livello alto l'interesse, l'impegno, la voglia.
Se la chiamassero per organizzare un progetto ex novo in questo ambito cosa risponderebbe?
"Presente".