Avevo già letto qualcosa in proposito ma ora, trovarmi davanti a questa meraviglia, scatena in me una tempesta di evocative emozioni.
«Le carovane che attraversano il deserto da Abu Minqar [Egitto] a Cufra [Libia] devono fare molta attenzione. C’è una vasta regione dove il terreno è cosparso di pietre verdi, bellissime ma pericolose e taglienti, che possono ferire le zampe dei dromedari». Questa curiosa descrizione, contenuta in un manoscritto medievale arabo, è la prima notizia storica dell’esistenza del Silica Glass, un minerale estremamente lucente, originato 30 milioni di anni fa da un corpo celeste che, entrando nell’atmosfera della terra ad altissima velocità, esplose fondendosi con la sabbia quarzifera del Sahara. Il vetro siliceo si trova in alcune aree del Nord Africa davvero impervie ed inaccessibili, difficilissime da individuare ed esplorate solamente in tempi recenti.
Le spedizioni nel deserto orientale al confine tra l’Egitto e il Sudan hanno portato gli archeologi, oltre alla scoperta del “Deserto di Vetro”, anche all’individuazione delle miniere aurifere dell’antica civiltà egizia: era qui che i faraoni ricavavano l’oro e gli altri minerali preziosi utilizzati per i gioielli con cui amavano mostrarsi in pubblico e che utilizzavano per i lussuosi monili dei loro corredi funebri.
Persino la famosa gemma dalla lucentezza irreale incastonata nel pettorale della mummia del Grande Faraone Tutankhamon, era formata di Silica Glass. Ed è proprio lungo le piste dei faraoni che la storia dell’Egitto si intreccia con quella dei fratelli Castiglioni di Varese.
Nel 1989 Angelo e Alfredo, nei pressi del Mar Rosso, al confine con il Sudan, trovarono i resti di Berenice Pancrisia, la mitica città dei cercatori minerari, fiorente anche in epoca greca e romana, dal IV sec. a.C. al IV sec. d.C..Utilizzando una mappa araba e alcuni papiri del 1200 a.C. che riportavano l’indicazione delle miniere, scoprirono e ripercorsero una vecchia pista abbandonata attraverso la quale oro, ebano, avorio, elefanti e altre merci preziose arrivavano fino alle grandi città dell’antico Egitto, evitando le cateratte del Nilo. A decretare la fine di questo centro fu, come spesso accade, un cambiamento climatico.
Dal 500 d.C. in avanti i viaggi dei cercatori erano divenuti più rischiosi: la desertificazione era avanzata a tal punto che la metà degli uomini e degli animali che attraversavano questa zona per portare l’oro sulla costa, morivano di sete. La città fu quindi abbandonata e coperta dalle sabbie fino a quando i due archeologi varesotti rinvennero alcuni resti di bivacchi, sepolture e graffiti in geroglifico, che portarono all’avvincente scoperta.
Ovviamente faccio alcune semplici ricerche: quello che è stato per i due esploratori un viaggio di mesi e lo scopo di un’intera vita di indagini, si risolve ora in qualche istante. Ecco le coordinate di Berenice Pancrisia su Google Earth: 21° 56′ 50.28″ N, 35° 8′ 22.56″ E.
Avevo già letto qualcosa in proposito, ma ora trovarmelo davanti, all’interno del SUO Museo, scatena in me una tempesta di evocative emozioni. Angelo Castiglioni. Uno dei due ricercatori di questa fantastica avventura. Vorrei “seppellirlo” con un milione di domande, ma riesco soltanto a mormorare timidamente: “Grazie, per tutta la passione e l’impegno della Sua instancabile ricerca, per aver dedicato un vita intera ad inseguire un sogno, ma grazie soprattutto per avere avuto straordinaria l’intuizione di raccontarlo.
Ivo Stelluti
Le vicende sono narrate nel libro Quarantanove racconti d’Africa, ed. Nomos, Busto Arsizio, 2012 e nella rivista Archeologia Viva, n. 173, Ottobre 2015, Giunti Editore.