Busto Arsizio – Ogni volta che scendo a Roma mi sforzo di trovare il tempo di fare una passeggiata all’Ara Pacis Augustae per osservare l’opera di Fausto Delle Chiaie. È lì che l’artista ha il suo studio, un’antica pietra addossata alla chiesa di San Rocco, che funge da panchina, pensatoio e da mini deposito. Lui di solito arriva in sede al pomeriggio verso le 14.30 con un trolley colorato (quello attuale è rosso) che contiene i suoi lavori già preparati o i materiali per costruirli: fogli, cartoni, tavolette di legno, pennarelli, biglietti scaduti, matite, monetine, sassi, pietre ed altri materiali, artisticamente poco nobili per gli altri, ma che per Fausto sono manna piovuta dal cielo, benzina per il motore della sua fertilità. Appena dietro allo studiolo incomincia la perlustrazione e la caccia alla ricerca di spunti di lavoro: oggetti abbandonati dai turisti, scarti, rifiuti, foglie secche, toponi che lo vogliono salutare e che desiderano ardentemente entrare in una sua storia. A volte confesso che non riesco ad osservare di lontano senza intervenire di persona per salutare il protagonista della scena, e magari acquistare qualche pezzo. Il costo è sempre quello, offerta libera, ossia: “damme quello che vuoi”, “ma se te piace davero, io te lo regalo”.
Come un mago ispirato, Fausto si raccoglie per pochi secondi in meditazione, poi parte a razzo e incomincia ad infilare episodi concatenati di una storia inventata lì per lì, anzi suggerita, imposta dalle cianfrusaglie trovate. Come sibilla o aruspice che osserva, mescola i segni e poi divina, o indovina, l’affabulatore teatrante incomincia a disegnare sogni nell’aria. Gli episodi della serie sono di norma esposti sul basso muretto che sostiene i pannelli neri, nuovi di zecca, che raccontano la storia gloriosa del sito, richiamando gli ignari e forse dopo consapevoli visitatori di questa mostra a cielo apertissimo. È uno spettacolo osservare a distanza l’artista che colloca le sue opere, le modifica, le sposta, le ricolloca, sempre camminando da un punto all’altro dell’esposizione, secondo antichi quanto inconsapevoli passi rituali. Perché è persino ovvio che in quell’attività esteriormente solo teatrale ci sia invece una millenaria tradizione suggerita anzi imposta dal luogo: siamo in un territorio sacro, consacrato agli dei a cui il sacerdote Faustus offre benevolmente le sue offerte.
Rimango sempre affascinato dalla danza che inanella muovendosi da un capo all’altro, e soprattutto resto incantato dalla voce suadente di Fausto che mi spiega con profonda semplicità le sue opere, una per una, sempre però puntando ad una sorta di narrazione conclusa, ciclica, che mette sotto un’etichetta generale, o, come amano dire i critici, all’interno di un ‘ciclo’. Così fa con tutti, pazientemente, pronto a sfruttare a suo (e nostro) vantaggio i suggerimenti o le interpretazioni degli astanti che discutono con lui. E allora io penso ai fregi dell’Ara Pacis che è collocata a pochi metri da noi e alla sua struttura narrativa circolare, che in fondo traccia un hortus conclusus. In effetti è attraverso la scrittura (grazie alle didascalie che Fausto dissemina sul suo percorso) e la voce che l’artista intesse storie sempre diverse e sempre uguali, quasi miti dominati dalla dea Metamorfosi o, se vogliamo, dalla sua ancella Metafora di cui Fausto è devotissimo seguace e custode. Mi accorgo di usare un linguaggio per iniziati che non coglie appieno la personalità poliedrica di Fausto, che in realtà è camaleonte capace di mimetizzarsi a meraviglia a seconda del suo interlocutore, adottando diverse lingue, registri diversi, alto o basso per lui pari sono. L’ultima volta faceva molto caldo e arrivava trafelato dalla stazione (due ore e trenta fra andata e ritorno); gli ho chiesto un po’ del paese dove da tempo abita, Sgurgola, vicino ad Anagni, nella casa di famiglia. Mi sembrava un paese inventato al momento per farmi contento, con quel nome che mi ha ricordato Gargamella e il pianeta dei puffi. Poi ho controllato sull’atlante, Sgurgola esiste davvero e forse, riflettendoci sopra, ci racconta non poco del carattere di Delle Chiaie (nato a Roma il 23 gennaio 1944). Pare infatti che Sgurgola sia stata fondata dal gladiatore Spartaco, capo degli schiavi in rivolta, il che la dice lunga sulla decisione di Delle Chiaie di accamparsi presso l’Ara Pacis, ricordandosi della terza guerra servile. Come sempre accade, ci sono altre interpretazioni e quella che mi attrae è l’etimologia che ricorda la sentinella, la guardia (dal gotico skuks), perché in fondo Fausto è, a Roma, scolta del luogo sacro. Da Wikipedia apprendo che Papa Bonifacio VIII impose al medico e profeta valenzano Arnaldo da Villanova di risiedere alla Sgurgola, dove egli compose una delle sue opere apocalittiche più importanti, il De mysterio cymbalorum Ecclesiae, in cui proclamava l’imminenza della venuta dell’anticristo e della fine del mondo. Anche qui ci sarebbe da scrivere molte storie, e qualcuno prima o poi ci penserà.
Intanto è giunto il momento di abbracciare Fausto e di salutarci. Ogni volta impiega un po’ a riconoscermi, ma poi è come se ci conoscessimo da una vita. Delle sue esperienze appena posso cerco di cogliere qualche episodio significativo. Così abbiamo parlato di pensioni, della sua (misera) e della mia che tarda ad arrivare. Quando a bruciapelo gli ho chiesto che lavori ha fatto prima del pensionamento, si è messo a ridere con i suoi occhietti furbi. “Fausto, non dirmi che tu non hai mai fatto niente, vero?”. “Beh, non è stato facile, ma ci sono riuscito”, mi risponde toccandomi la spalla. “Ho fatto solo l’artista e i cazzi miei”. Mi verrebbe di mandarlo a quel paese, ma come si può infierire su uno come lui? In fondo persone come Fausto andrebbero solo ringraziate. Insegnano il valore della libertà personale e della creatività messa al servizio di tutti. Il che non ha prezzo.
Alberto Brambilla