Busto Arsizio – C’è tempo fino al 25 luglio per sfidare la calura di Milano e andare a vedere nella sciccosa via Sant’Andrea, a palazzo Morando Attendolo Bolognini, la mostra così intitolata: “Federica Galli green Grand Tour”.
Federica Galli noi di Busto e dell’alto Milanese abbiamo potuto ammirarla quando esponeva le sue acqueforti in talune gallerie che allora facevano belle mostre e fin chiacchierare con lei, seduti intorno a un tavolo in certe serate dell’Italiana Arte dove con Testori era di casa. Le sue incisioni non solo ci sono sempre piaciute, ma, di più, le abbiamo amate. Amate perché rappresentavano la nostra terra non in toni nostalgici, da ricerca del tempo perduto, bensì nella sua profonda e arcana bellezza che lei, la Federica, sapeva cogliere e ricreare in oggettività insospettata. La ricreava non con la seduzione dei colori bensì con segni, tratti, solchi, brevi linee, graffi scrupolosamente incisi sulla lastra quasi sempre di grandi dimensioni, in un lavorio continuo e meticoloso, incerto nell’esito finchè il foglio ancora umido non appariva dopo il contatto con la lastra sotto la pressione forte del rullo.
A Milano la Galli arrivò nel 1947, poco più che bambina, da un paese della bassa padana, Soresina, per studiare, con scelta allora coraggiosa, al liceo artistico e all’Accademia di Brera (si diplomò con Carlo Carrà) e portava con sé l’essenza del mondo contadino ancora intatto della sua terra in una città che si stava riprendendo con forza dai disastri della guerra (Toscanini aveva già inaugurato la Scala ricostruita, un segno davvero indicativo della ripartenza). Lasciando i paesi della Bassa i suoi occhi, la sua mente e il suo cuore avevano fissato per sempre quei campi rigogliosi e floridi in estate, gelidi e silenziosi d’inverno, quei boschi freschi e pieni di vita che pochi mesi dopo diventavano solo un intrico di rami contorti.
Sono stati appunto quelli dei boschi, delle lanche, delle cascine, di sovente quelle abbandonate e coperte d’edera, dei sentieri e degli alberi – dai platani monumento della natura, alle snelle robinie e alle tenere betulle – i temi più amati su cui l’artista ha variato di continuo, mai un “déjà vu”, ma sempre una nuova e diversa prospettiva visiva, immancabilmente chiara e netta, banditi impressionismi ed espressionismi.
Non fu comunque solo al paesaggio della campagna lombarda che la Galli si applicò. Altri, invero non numerosi, soggetti li affrontò sempre con l’usuale, grande acutezza visiva e con le stesse armi: punteruoli, bulini e pennini, inchiostri… Così avvenne per la ormai “sua” Milano, dove visse a fianco del marito, Giovanni Raimondi, capo redattore al Corriere; della città riprese le macerie delle case bombardate ma anche le prospettive delle strade moderne, fiancheggiate da palazzoni squadrati e da cantieri e gru che sui suoi fogli non appaiono mai impoetici. Bandita anche qui ogni presenza dell’uomo, le strade deserte vivono nel loro silenzio sospeso.
Silenzio e non presenza sono caratteristiche che si rinvengono anche nella serie di grande bellezza delle vedute di Venezia, la città del colore, della vita, delle gondole che scivolano sui canali come si vedono nelle vedute del Canaletto o del Guardi. Lei imperterrita la coglie solo (solo?) in bianco e nero, eppure la magia della città c’è tutta, altrettanto intensa. Più di una veduta ne fa una visione: arcana e sommessa.
Ecco questo è il percorso dell’arte di Federica Galli che si può ammirare nelle sale al pianterreno di palazzo Morando. Più che un percorso a me è parso un canto tenero e sereno che ci accompagna lasciandoci alla fine un po’ commossi. E, senz’altro, grati.
Giuseppe Pacciarotti