Ragazze violate, mogli picchiate, fanciullezze contaminate, vite annientate.
La cronaca è fitta di episodi ributtanti, casistiche spaventose, che spezzano le ali all'alibi e lacerano il paravento del nemico esterno, estraneo, subumano.
La metà oscura non si ferma dietro a una porta, un cancello, una guardia. Perché il maschio è quella metà. E' lui ad aprire la porta, a costruire il cancello, a montare la guardia.
Quella delle violenze sulle donne è la storia dell'umanità. E' l'Iperuranio platonico, il mondo che precede la vita ma dove già risiedono le idee. E insieme alle idee, l'anima stessa, con la sua carica di segreti e di perversioni, che trapiantate nel corpo e armate di respiro, di sangue e di muscoli, si traducono in un codice, a volte benevolo, altre volte brutale, occulto, misterioso nella sua bestiale voracità. E dunque succube, duttile, condizionabile.
Ecco allora che cronaca cioè verità, e Mito, cioè iper-realtà, si incontrano, si annodano, si avviluppano. E si concedono. A un palco. A una platea. A luci, chitarra, microfoni. E a un corpo, quello di Claudia Donadoni: autrice, regista e interprete di Figlie di Barbablù. Ma il suo non è un recital. E' un viaggio. Che attraversa altri corpi, altre epoche, altre dimensioni. Per tendere un filo comune che leghi la vita vissuta a quella sognata. La carnalità del gesto alla proiezione dell'ideale. C'è qualcosa di dantesco nel cammino di Donadoni. Lei è Virgilio. Noi gli increduli visitatori. Carichi di complice ingenuità, spalanchiamo occhi e orecchi di fronte a racconti che hanno la durata dell'aneddoto, la cadenza dell'incubo, l'afflato ammorbante della pestilenza. Invano, attendiamo un castigo o una redenzione. Ma non ci sarà né l'uno né l'altro. Anche perché, incredibile a dirsi, esistono reati senza colpa, tragedie senza lacrime, mostri senza zanne, demoni senza corna né piedi caprini.
E il bello, o il brutto, è che è tutto metafisicamente reale. L'artista ci racconta, senza filtri, una serie di abusi provati, conclamati e in seguito puniti. Ma quest'ultima parte, per quanto palese, ci viene negata. Non serve. Non la meritiamo. Troppo facile aggrapparsi al caro, vecchio "giustizia è fatta". Troppo consolatorio puntare l'indice sull'uomo cattivo. Di quelle storie, che hanno un luogo e una data precisi, ma la cui eco risuona sempre e in ogni dove, ci è dato percepire solo l'orrore. Ci sembra di sentirle le grida, gli improperi, le voci strozzate, il suono sordo delle botte, dei pugni, dei calci. Le mani rugose che stringono colli diafani. I piedi tozzi che schiacciano ventri gravidi. Le dita nodose che sporcano corpi esili e sogni gentili. E ci sembra di rinascere quando poi, nel baratro del buio e del silenzio, ci viene in soccorso la musica, la poesia, l'alito profumato dell'arte narrativa. Ma nemmeno qui c'è tregua. Il girone prevede soste, non vie d'uscita. E allora anche l'iperbole ironica finisce per rincarare la dose delle amare riflessioni. Perché dietro a ogni stereotipo, a ogni battutaccia, a ogni luogo comune che cita tette e sederi, si nasconde la radice dell'essere. E da quella radice, una volta strizzata, cola l'essenza appiccicosa dell'abuso. Perché è nel più piccolo e recondito dei nostri pensieri che alberga il bruto. E' nella convinzione apparentemente più innocua, nello sguardo di sufficienza più collaudato, nella più apatica disattenzione, che nidifica il germe del manipolatore, dello sfruttatore, o addirittura dell'aguzzino.
E allora, incalza Donadoni, non c'è linea di fine che non segni un nuovo inizio. Non c'è incubo che non termini col risveglio, non c'è notte che non finisca per schiudersi al giorno. Ma serve coraggio. Serve amore di sé. Serve la consapevolezza. Serve la capacità di guardare in faccia la realtà, di chiamare il male con il suo nome, di coltivare, annaffiare e nobilitare quel bene prezioso che risponde al nome di dignità.