partic. pavimento
di Sergio Pesce
Il rinnovamento degli studi verso l’arte dei Cosmati, avvenuto nel XX secolo, a differenza di quanto si ebbe modo di avvertire per l’arte gotica, fu incentrato sulle personalità di alcuni artisti che ebbero la fierezza di firmare i loro lavori tanto da consegnarci oggi una memoria storica della loro personalità.
Tale consapevolezza inizia a maturare attorno ai primi anni del XII secolo con significativa emancipazione rispetto agli artisti medievali italiani di maggior prestigio che decisero di firmarsi a partire nella seconda metà del Duecento, ove la segnatura divenne la prova di una condizione sociale lievemente mutata.
Una situazione piuttosto singolare, quella legata alla scelta compiuta dai Cosmati che ancor oggi interroga e al tempo stesso affascina vari studiosi.
Questa atipicità sembra nascere essenzialmente per affermare la propria appartenenza alla cultura classica, quindi ad un mondo antico.
Per comprendere questa loro supposta eredità va esemplificato il loro modus operandi. Le loro opere sono dei veri sistemi ornamentali caratterizzati da tasselli di marmi bianchi e colorati, impiegati con pietre come il porfido e il serpentino (quindi molto salde), usati nella decorazione di elementi architettonici e suppellettili di edifici religiosi.
Successivamente impiegheranno tessere di pasta vitrea e oro producendo variegati motivi legati al disco, alle fasce e ai riquadri come testimoniano anche i loro famosi pavimenti.
Sotto il pontificato di Pasquale II (1099-1116) il loro compito fu quello di adempiere alle loro opere reimpiegando i marmi antichi, e quindi per questo considerati continuatori della cultura classica. Il termine “marmorari romani”, nato proprio sotto questo Papa, andava ad indicare il monopolio di queste botteghe, rispetto alle altre, nel reimpiego dei marmi.
Pietro Vassalletto,
candelabro pasquale,
San Paolo fuori le Mura
La sigla di Cosmati deriva da una imprecisa interpretazione ottocentesca che leggendo spesso il nome “Cosma” o “Cosmatus”, nei documenti epigrafici, creò il nome Cosmati, pensando che tutti questi artisti facessero capo ad una sola famiglia (oggi sappiamo che furono almeno sessanta gli artisti impegnati in queste particolari opere).
L’etichetta fu poi associata alla connotazione stilistica vista poco fa.
Quindi non si sbaglia se consideriamo il termine Cosmati come una convenzione per indicare alcune famiglie di marmorari romani attivi a Roma e nel Lazio tra il XII e l’inizio del XIV secolo.
All’interno di queste botteghe, strettamente famigliari, gli strumenti e i modelli venivano trasmessi di padre in figlio, mantenendo consapevolmente un conservatorismo formale basato sulla custodia e continuazione dell’antico attraverso una omogeneità di soluzione.
La persistenza con il passato veniva agevolata dalla quantità di rovine, resti di colonne, capitelli, statue, pavimentazioni che in una Roma in cui le aree disabitate erano maggiori rispetto a quelle edificate potevano essere ben colte. Inoltre, la riforma gregoriana, allora in atto, spingeva nel riproporre in chiave classico-cristiana il modello culturale costantiniano, dove il prestigio imperiale e la nuova fede dovevano saldarsi in maniera
San Giovanni in Laterano a Roma
significativa. Ecco quindi come le opere che diremo cosmatesche, nate attraverso una manipolazione (in taluni casi) meccanica del reperto antico, divennero funzionali alla riforma stessa.
La prima stagione dell’arte cosmatesca può dirsi compiuta con la basilica superiore di San Clemente. Eretta nel secondo quarto del XII secolo, sulle fondazione di un edificio paleocristiano, mostra un pavimento che rispecchia in maniera puntuale un preciso schema assiale che privilegia un percorso longitudinale, evidenziato da dischi marmorei colorati, bordati da fasce che probabilmente si rifaceva al pavimento della basilica di San Pietro parzialmente rifatto durante il pontificato di Callisto II (1119-1124). La cattedra, più di ogni altro elemento, segnava il punto culminante di questo percorso longitudinale, tipico della pianta basilicale. A coronamento dello schienale si inseriva un disco, connotandone la santità, mentre la struttura arricchita, nei braccioli, di elementi decorativi (come ad esempio dei leoni) ne sanciva il potere.
Nella seconda generazione di artisti si vide affiorare in maniera sempre più palpabile l’ambizione a competere direttamente con i costruttori. Questa volontà, garantita da una sicura competenza, fece guadagnare loro maggiori committenze in campo architettonico, alle quali fu sempre associato il repertorio decorativo.
Fra il XII e il XIII secolo le opere uscite dalla bottega cosmatesca di Jacopo di Lorenzo e di Vassalletto, grazie alla piena assimilazione dei prototipi antichi, anche nel campo architettonico, rendono ardua la distinzione tra pezzi reimpiegati o semplicemente imitati.
Un esempio di questo felice binomio di intenti lo ritroviamo nella basilica di San Paolo fuori le Mura ove si conserva il candelabro pasquale, risalente alla fine del XII secolo. L’opera di Niccolò d’Angelo e Pietro Vassalletto recupera in chiave cristiana la colonna coclide romana attingendo a forme della scultura classica impreziosite con episodi della Passione.
Tale maturità rappresentò il punto di arrivo dei marmorari romani, prima dell’affermarsi di soluzioni gotiche, introdotte a Roma da Arnolfo di Cambio. Tale mutazione ideologica portò la decorazione policroma ad un livello di semplice termine lessicale, che comunque riuscì a sopravvivere sino al XIV secolo.