Prima e dopo – Il titolo della mostra "No Landscape" non lascia spazio al dubbio: è dichiarata la fine del paesaggio. Ad intervenire sull'argomento è Luca Beatrice, curatore della mostra, nonché Docente di Ultime tendenze delle Arti Visive presso l'Accademia di Brera e responsabile del Padiglione italiano della 53° Biennale di Venezia. Prima di parlare della sua sparizione, occorre però fare un passo indietro e capire cos'ha significato il paesaggio fino a qualche decennio fa: uno spazio fisico con caratteri peculiari ed abitato dalla presenza umana. La piazza della città, tanto per fare un esempio, dall'architettura riconoscibile e luogo di incontro fisico tra le persone. Cosa resta di questa realtà?
Perdita d'identità – Poco, pochissimo. Beatrice cita Augè che con i suoi "non luoghi" ha spiegato l'evoluzione del paesaggio nell'epoca contemporanea. Al posto di quel paesaggio fatto di alberi e case, città e campagna, città e periferia si sono affermati una serie di luoghi senza definizione, senza confine, terre di mezzo sospese ai limiti delle periferie industriali, ai lati delle tangenziali: centri commerciali, outlet, multisala che racchiudono al loro interno un microcosmo funzionale dove perdersi nell'anonimato tanto desiderato. Luoghi uguali in tutto il mondo, luoghi preconfezionati, luoghi del "tutto indifferenziato" in un'infilata continua da una periferia all'altra che rendono il paesaggio "un magma informe dove ogni confine sparisce, ogni differenza sparisce, ogni senso estetico, formale, abitativo, si amalgama in un appiattimento generalizzato e ovunque dilagante."
L'arte che ancora può – Il paesaggio diventa così un iper-luogo che al suo interno comprende anche il super luogo per eccellenza quale è Facebook. Tornando alla domanda iniziale: cosa ci resta del vecchio paesaggio? Esso morendo ha lasciato dietro di sé un accumulo di immagini e di memorie a cui gli artisti ancora si rivolgono per ricostruire ex novo una sua nuova immagine con i vari mezzi a loro disposizione, dalla pittura alla fotografia, dal video all'elaborazione digitale. In questo modo hanno lavorato gli artisti di Italian Factory per la mostra alla Fondazione Bandera.
Parola agli artisti – Le opere dei 16 artisti in mostra rivelano, dunque, approcci assai diversi, ma la medesima volontà di "ricerca di un sublime tutto contemporaneo". Significativo in questo senso è il lavoro di Giacomo Costa, che rielabora e manipola un repertorio di immagini digitali per ottenere delle visioni stranianti, totalmente mentali che evocano un paesaggio quasi apocalittico. Altrettanto d'impatto sono i dipinti di Alessandro Busci che ritrae rugginose periferie deserte, cantieri e stazioni di servizio immersi nel silenzio, nuovi emblemi della mancanza di identità del territorio. Alla stessa poetica sono riconducibili i quadri di Giorgio Ortona che nel titolo si sforza di attribuire un'identità a grovigli di palazzine tutte identiche tra loro. Velocità e dinamismo vengono colte da Papetti nelle sue visioni urbane tratteggiate con istintività. E poi ancora a offrire la propria interpretazione ci sono: Alioto, Basilè, Coltro, Conca, Damioli, Fiorentino, Frangi, Lombardi, Petrus, Reggio, Siciliano, Zucchi. Nel limbo della pittura, come conferma Beatrice, "il pittore contemporaneo torna a farsi narratore sensibile dell'universo".