"Andare a Los Angeles per scoprire una nuova arte era diventata una necessità urgente. Era un nuovo mondo che si poteva capire solo vivendolo. Era un'apertura verso un'esperienza che non era solo mentale, si manifestava attraverso un rapporto con una realtà al di fuori di sé stessi. È sempre stato il mio sogno vivere una realtà che fosse l'esatta riproduzione dei miei desideri, dove l'esterno fosse la continuazione del mio interno, dove venisse abolita la frattura tra la bellezza e desiderata e la realtà. Sentivo parlare della Land Art, nei deserti del West, dove la terra, il cielo, le stelle diventavano un'immensa opera d'arte. L'artista aveva la possibilità di appropriarsi della natura nella sua condizione più totale perché priva di vita, dove i fenomeni senza tempo diventavano visibili, quelli che vengono prima e che saranno anche dopo. Erano luoghi dove la presenza umana era assente". Con queste parole, Giuseppe Panza, lungimirante collezionista e mecenate, ripercorre i suoi ricordi legati agli inizi della sua collezione e ai primi incontri con gli artisti americani legati al movimento dell'arte ambientale, un'arte che "lavora lo spazio, la luce e la percezione e che di questa interroga in modo radicale la natura". Panza riconosce in ogni opera il massimo, peculiare contenuto di verità, in netto anticipo sui tempi della critica e del mercato dell'arte.
"Il primo artista che ho conosciuto del gruppo dell'Arte Ambientale è stato Robert Irwin, incontrato a New York alla Pace Gallery nel 1968, quando esponeva i dischi. Una delle prime opere che rappresentavano l'illusione di un'entità sospesa nel vuoto. Come percepiamo ciò che definiamo realtà? Irwin lascia intendere che la nostra
percezione sia sempre sfasata. Prendiamo ad esempio la parete del corridoio di Varese, realizzata con un velario in tergal (Varese Scrim). Di primo acchito sembra la continuazione del muro del corridoio ma camminando lentamente, ci si accorge che dietro c'è un altro spazio. Questa è la cosa fondamentale: si ha una prima sensazione e se ci si concede il tempo di lasciarsi colpire dal fenomeno, si scopre tutt'altro… C'è un gioco tra ciò che appare inizialmente e ciò che poi si rivela perche noi percepiamo dapprima attraverso filtri della nostra abitudine mentale e della memoria. L'esperienza d'arte dovrebbe aiutarci a prendere consapevolezza dei paraocchi che tutti noi portiamo, dei veli che senza saperlo proiettiamo sulle cose quando le guardiamo".
Agli inizi degli anni '70, Giuseppe Panza parte assieme alla moglie Giovanna alla volta della California, seguendo il consiglio di Irwin, che aveva parlato loro di alcuni artisti tra cui Douglas Wheeler, Eric Orr. Maria Nordman e James Turrel, la sua "scoperta più importante".
"Turrel abitava a Venice, un quartiere di Los Angeles, in un vecchio hotel destinato ad essere demolito a favore di un programma per la costruzione di nuovi alleggi. Viveva in questo luogo all'interno del quale non vi era nulla, eccezion fatta per qualche locale completamente bianco dal pavimento al soffitto, illuminato da alcune aperture. Quando Turrel invitò me e Giovanna a visitare l'ambiente, fummo colpiti da una stanza quadrata di circa 6 metri per 6 con un'apertura sul soffitto ce dava sul cielo. In basso un neon posizionato vicino a un muro illuminava la stanza. Turrel ci propose di sederci su uno dei cuscini e di guardare fuori. Da l' si vedeva la luce che cambiava colore nel corso del tramonto e della notte. Bianco, rosso, verde, tutti questi colori riempivano la
stanza in un modo incredibile, quasi fossero dematerializzati. La proiezione dei colori sembrava proiettarsi sulla superficie dell'apertura verso il cielo. Restammo là per una buona mezz'ora. La sensazione era così intensa che non volevamo spiegazioni dell'ambiente che aveva creato. Paragonata alla frenesia di Los Angeles, quella era un'esperienza di pazienza, lentezza e sorpresa".
Turrel venne a Biumo tra l'autunno del 1973 e la primavera dell'anno seguente, fermandosi a lungo con l'intento di progettare le opere da fare alla Villa: Sky Window I, Sky Space I, Virga. Durante questi lunghi soggiorni ne approfittava per disegnare diversi progetti sempre utilizzando la luce naturale. "Era particolarmente bello il progetto per una cappella, dove lo sguardo finiva verso la luce, il cielo, l'infinito. Una condizione veramente religiosa, così rara nella Chiesa Cattolica da quando è venuta meno la grande committenza da parte della classe nobiliare, dopo la rivoluzione francese e l'inizio dell'industrializzazione". Panza comprò inoltre alcuni progetti, che nel 1992 regalò al Guggenheim "nella speranza che nei suoi grandiosi programmi di espansione vi fossero spazi per le opere Ambientali, speranza finora realizzata solo in parte con mostre temporanee e non permanenti."