Le ragioni, i sentimenti, o forse, per esprimerci meglio e più lombardiamente, gli affetti che stanno all’origine della presente rassegna son molti; ma possono raccogliersi, tutti, nel nome della fedeltà e dell’amicizia; tanto ove s’intenda considerare la direzione che va dalla città al pittore, quanto quella che dal pittore va alla città. Fedeltà a un’amicizia?
O amicizia a una fedeltà? L’una e l’altra, inscindibilmente legate. Certo, Varese, nei confronti di Guttuso, che da anni, tra estate e autunno, vi abita e lavora, aveva questo debito da saldare, che era ed è, poi, un onore da illuminare e un grazie da pronunciare; ma, come tutti gli uomini di vera e grande passione – e se lo si scrive, è perché lo si sa – Guttuso aveva, nel suo cuore, di questa mostra, un vivo e pungente desiderio; forse, in sé, ne avvertiva una sorta di dolce diritto; appunto, per quella fedeltà e per quell’amicizia.
Ed ecco qui, realizzato, l’incontro tra l’alto onore, il certo dovere, il dichiarantesi grazie e il pungente desiderio e il dolce diritto. Ne sono mallevadori, da una parte, la Città, nelle persone del suo sindaco, del suo assessore e del direttore dei suoi Musei, ma altresì nell’intero corpo, o coro, dei suoi “cives” e dei “cives” della provincia sua; dall’altra Guttuso, che tutto di sé, con caldo amore ha messo a disposizione affinché l’evento, infinite volte annunciato e altrettante volte rinviato, potesse, finalmente, concretizzarsi sul colle di Villa Mirabello; proprio nelle stanze, dove, fino a pochi mesi fa, s’eran viste torcersi le oscure, tragiche follie ( e paranoie) del Cairo.
Chi scrive s’è trovato nel mezzo: metà di Guttuso e metà di Varese. Povero cuore ( e intelletto) frantumati! Un po’ come quello del capitano di cui parla l’antica canzone alpina? Lasciamo stare i santi; e i fanti. Così come il cuore dei martiri veri e dei veri martirizzati. Del resto, se Varese e Guttuso sono inscindibilmente legati, per il passato, per il presente, per il futuro e per quel tanto di eterno che a noi umani è dato immettere nella nostra povera storia, anche la divisione del mio, di cuori, è stata, in realtà, un abbraccio.
Questo si scrive, ancorché sia stato fermo, e quasi tetragono nel volere che la mostra risultasse quella che è; quella, cioè, che la sua titolazione prometteva e, dunque, esigeva che fosse. Ho buone ragioni per ritenere che il risultato darà ragione alla mia fermezza, per altro, subito accolta dagli esimi amici, mallevadori dell’evento. Ché se pochissimi utile sarebbe stato (e, questo, lo si scrive per tutti e in tutti i sensi) ripetere, in più brevi misure, le monografiche che, a Guttuso, negli ultimi anni i pubblici musei ha giustamente dedicato; sommamente utile sarebbe risultato il fatto che, puntando sul legame, sull’affezione, sulla per fusione, spesso così innamorata, filiale e insieme paterna, da farsi immersione, nell’humus e nell’animus del paesaggio e della vita varesina, ci presentasse un Guttuso colto nelle sue più intime, segrete, recondite e straziate meditazioni.
Stavo per scrivere: un Guttuso colto nel momento in cui recita i suoi laici, martirizzanti, glorificanti rosari…Guttuso, mi perdoni. E, tuttavia, v’è un rosario, qui, in questa mirabile serie di dipinti, che vien recitato, per l’appunto, d’anno in anno, come se venisse recitato di sera in sera. E, tale rosario, è nulla più, ma altresì nulla meno, che lo svenarsi dei cieli in quell’ora (“quel” è qui usato nell’amplissima accezione dell’incipit manzoniano): l’ora che volge al desio / e ai naviganti intenerisce il core…”:
Questo si scrive poiché tutti siamo, qui, naviganti; dell’esistere, intendo; e perché forse mai, come in questa mostra, Guttuso ci si espone per tale; e ci s’espone talmente indifeso da colpirci al cuore. Giusto come quei cieli, quei recitati tramonti (o rosari) han colpito, prima, lui; e, tuttavia, lo colpiscono; ogniqualvolta, all’arrivo della calura, lascia la Città eterna per salir qui, a Velate, e vederne, seppur di lontano, un’altra, di città eterne: quella nevata, intendo, del lontano, peperò imminente, macigno del Rosa; che è, pur esso, città: dell’infinito silenzio che Amleto, morente, invoca su di sé, lasciando che, da sé, si popoli del Dio che ne è, da sempre, abitatore e senso.
E’ ben vero che, a Velate, Guttuso ha trovato anche la necessaria calma, la necessaria tranquillità, la necessaria concentrazione, e, chissà, la necessaria luce, per progettare, studiare, sezionare, triturare, e, poi, ricomporre in una unità vincente e clamante, alcuni dei grandi “teleri” che fan da pilastri alla sua carriera (e, di questo sua agire varesino, non per temi, ma per domestico e “atelieresco” calore, o quasi, e forse, fuoco e camino, s’è voluto dare una prova esponendo il celeberrimo “Spes contra spem”; ultima, ma forse, adesso che scrivo, penultima, di quelle vaste, riassuntive composizioni); ma più vero mi parve, e mi pare, che la mostra si desse quale scopo di portar finalmente in luce, nell’estrema, serale luce che domandano, gli atti d’incanto e, insieme, di contrizione, l’opere, ecco, più varesinamente, più velatescamente, più trevallescamente dedicate alla cara, amata terra che, dopo essere stata da lui così omaggiata, l’omaggio a lui restituisce; e l’onore.