Nella vita c'è sempre un filo. Solo che te ne accorgi con il passare del tempo, con il trascorrere della storia. O, meglio ancora, alla fine della stessa. C'è da stimare chi ha la fortuna, dopo una vita intera, di raccogliere le fotografie, le lettere, le tracce e i segni di amicizie, di affetti di una vicenda intera. La mostra che Busto Arsizio dedica al maestro Aldo Alberti racchiude tutto questo. E molto di più, dal momento che il maestro, vero decano della pittura locale, ha assistito al taglio del nastro dell'ampia rassegna, avendo, ancora una volta attorno a sé, le persone che ama.
Una vita attraversata come un privilegio, con coscienza e volontà di decisione, con entusiasmo o speranza, a seconda del fatto che si pone davanti: vittorie o sconfitte.
Per Alberti, l'arte non è fatta di solitari e stretti viottoli, di piccole esperienze e piccole emozioni private. Dai maestri si apprende, con i coetanei si condivide. E così, i riferimenti si incontrano ed emergono con schiettezza dalle opere. Ci sono tutti: Tosi, Morlotti, Sironi. Ma anche Soutine e il più grande di tutti: Georges Rouault, il cui impulso animato da una sincera e drammatica sensibilità religiosa e da un'insopprimibile pietas, si riconosce in tante opere dell'Alberti. Dal maestro parigino il decano bustocco pare riprendere soprattutto l'intensa espressività, la perentorietà del segno grafico, la misura strutturale e rigorosa, l'impietosa violenza, il nutrito impasto di sughi cromatici che conferiscono spessore di rilievo allo schematismo delle forme, sempre più semplificate nell'essenzialità dei contorni.
Quell'essenzialità sacra, senza orpelli, che si ritrova, in talune opere esposte: nella Deposizione (carboncino su cartone, anni ‘60) di una sinteticità capace di ricordare Antelami, nel Crocifisso – scultoreo, alla maniera dei grandi toscani del XIV secolo – oggi nella Parrocchia di Sant'Anna (olio su tela, 1964) e in quello secco e "metallico" del 1993 (olio su tela), dove il colore del martirio è quello dell'agonia esangue.
La mostra abbraccia il percorso artistico e biografico dalla fine degli anni Venti fino ad oggi con tele, chine acquerellate, ceramiche, vetrate, sanguigne e carboncini.
"Quanti sono i quadri che Aldo Alberti può aver dipinto
nei suoi cento anni di vita dedicata, con ritmo monastico, quasi completamente alla pittura? Quanti i pastelli che hanno tratto ispirazione dal suo interessato e curioso girovagare per vacanze operose? E quanti ne servono per documentare il suo valore, la sua creatività irrefrenabile e originale, sempre informata, ma volutamente indipendente dalle correnti dell'arte contemporanea che accompagnavano l'evolversi dei suoi giorni? Se alle prime domande la risposta è "migliaia", per questa mostra antologica – che vuole rendere appieno ragione alla grandezza di Alberti e rivisitare le fasi del suo operare- scegliamo il numero di cento, così significando e onorando la sua straordinaria longevità". Così si legge nel testo in catalogo di Luciana Ruffinelli.
"Soldi in banca non ne ho messi fino quasi agli anni '60. E dopo… beh, tutti vendevano, certo molto meglio di oggi, e anch'io ho venduto parecchio, forse anche troppo. Credo che a Busto Arsizio siano in pochi oggi, ricchi e meno ricchi, a non avere in casa un mio quadro. Con gli studi regolari sono arrivato solo alla sesta elementare: quindi artisticamente sono proprio un autodidatta. Ho studiato l'arte frequentando i musei quando potevo, a partire dai primi anni '50, in Italia e in Europa. Tra l'altro, ero molto malvisto dai guardiani e sorveglianti perché, per capire meglio la pittura dei maestri, spesso mi trovavo a toccare le tele con le dita per "sentire" meglio la pennellata e la materia. (…) Già da allora i miei temi erano, come oggi, quelli del paesaggio, delle nature morte e, soprattutto, del corpo femminile, del nudo di donna, che per me rappresenta il massimo del fascino e del mistero della forma in senso plastico, quasi vissuta con una sensibilità da scultore".