Cent'anni di pittura italiana, tra Cinque e Seicento, da vedere in due mostre, belle e illuminanti. Una un po' lontana, ma merita il viaggio, a Gaeta dove, nel Museo Diocesano, é aperta una approfondita rassegna su Scipione Pulzone. Da Gaeta a Roma alle corti europee. Per l'altra basta fare una scappata a Milano e passar da Brera. Qui, in alcune sale della Pinacoteca, si squaderna invece l'intensa bellezza del Seicento lombardo.
Due mondi distanti, e molto, non solo geograficamente. Scipione é il pittore che opera appena concluso il Concilio di Trento (1563) e a lui tocca dipingere Madonnette tutte devote e pie da sistemare davanti all'inginocchiatoio o pale d'altare cariche di circospezione perché nulla debordasse dai testi sacri. "Pittura senza tempo" la definì Federico Zeri in un fondamentale testo per Einaudi (1957), pittura di severa religiosità, del tutto priva di slanci emotivi, lontana dalla immediatezza delle emozioni che proviamo noi, soprattutto ora, nel tempo di papa Francesco. Per questo del Gaetano alla mostra, ideata da Anna Imponente, si apprezzano di più i ritratti: di cardinali potenti, avvolti in porpore preziose e cangianti, di granduchi e condottieri determinati e, soprattutto, di dame della gran società di allora. E in questi ultimi epidermidi di porcellana, pizzi di Fiandra e gioielli mozzafiato indagati con maniacale perfezione allo stesso modo del garofano rosso provocatoriamente sfoggiato da Bianca Cappello nella scollatura del suo abito.
Si può far cominciare la parabola del Seicento lombardo proprio quando Scipione muore, nel 1598, e sembra sia trascorsa un'epoca. Non che a Milano non si fosse sentita la cupa severità postconciliare attraverso i rigori e l'austerità di Carlo Borromeo, ma proprio all'aprirsi del Seicento s'avviava il lungo episcopato di Federico, il cugino minore, uomo di grande ed aperta cultura e di gusti più che raffinati, che accolse e diede sostegno ad artisti di fare nuovo, capaci di imprimere una svolta profonda all'arte lombarda. Vengono in mente allora le parole di Roberto Longhi scritte quasi un secolo fa: "grazie al cielo vi sono tre o quattro forti artisti nel primo Seicento milanese: Giulio Cesare Procaccini, il Cerano, Daniele e il Morazzone che si dànno fortemente la mano con quell'aria di famiglia, e di nobile famiglia che si diffonde e s'imprime superbamente in tutto il lignaggio…". Proprio da queste parole si può dire che prenda avvio la loro fortuna.
Gli studiosi, fino a qualche decennio, facevano concludere la stagione davvero eccezionale del Seicento lombardo con la
Quadro delle tre mani
scomparsa di questi pittori e con la peste del 1630, ma non é che poi nel Ducato di Milano la pittura languisse. Come documenta il persuasivo saggio di Francesco Frangi sul catalogo di Skira, il barocco lasciò consistenti impronte in chiese e palazzi e i maestri della seconda Accademia Ambrosiana aperta nel 1668 – la prima l'aveva fondata Federico nel 1621 – si adoperarono per rinnovarne i fasti.
In quattro sale della Pinacoteca, poco discoste da quella che ospita la Cena in Emmaus di Caravaggio che sarebbe stato bello vedere invece in posizione di avvio a questa rassegna, Simonetta Coppa e Paola Strada hanno riunito le opere più indicative del nostro Seicento possedute dalla Pinacoteca e in attesa di esser sistemate per sempre nella "Grande Brera", ahinoi più lunga da attuare della fabbrica del Duomo. Si possono ammirare tutti i "pestanti", da quelli menzionati nel 1914 da Longhi a Tanzio da Varallo e a Francesco Cairo, prediletti da Giovanni Testori, fra "languidezze e livori" che il Quadro delle tre mani palesa superbamente, e poi vivide pale d'altare ed estasi di San Francesco e di Santa Caterina sempre d'amore accesi, e ancora uomini di alta fermezza e donne lombarde, tutti ritratti in lucida psicologia da Daniele Crespi, dal Tanzio e dai fratelli Nuvolone: straordinario il ritratto che dipinsero della loro famiglia. Invece il Noli me tangere di Fede Galizia sembra parlare un altro linguaggio, ancora cinquecentesco, e trasuda ammirazione per Bril e Bruegel nella cura minuziosa dei particolari. A chiuder la fila, dopo il barocco sfumato dei Nuvolone, più del Congedo di Cristo dalla madre di Agostino Sant'Agostino, giustificabile in mostra solo perché stava con la tela della Galizia nel monastero delle agostiniane di clausura a Porta Ludovica, una Santa Batilde, schiava, poi regina e poi monaca, che rivela le vibranti qualità dello Zoppo di Lugano, "uno de' coloritori più veri, più forti, più sugosi del suo tempo", come scrisse a ragione già nel 1795 l'abate Luigi Lanzi.