La storia dell'edificio, oggi inserito nel complesso del Collegio De Filippi e noto come Villa o Villino Perabò, prende avvio nel 1552, quando il giureconsulto varesino Francesco Perabò compra un piccolo appezzamento di terreno coltivato a vite sulla collina dei Miogni. Qualche anno più tardi, tra il 1555 e il 1561, vi farà costruire un casamentum, ossia una casa civile e masserizia.
L'edificio si situava in posizione amena, a pochi passi da Varese. Il terreno, seminato e piantumato con quattrocentotrenta viti e sei castagni, doveva essere stato scelto perché particolarmente adatto per la costruzione di una Villa di delizia, ossia una dimora dove la parte residenziale e quella rustica dedicata ai lavori della terra, potevano affiancarsi, traendo vantaggio dalle qualità ambientali, dal paesaggio e dalla fertilità del terreno.
Varcata la soglia della Camera Picta al primo piano, ci si trova in un locale piuttosto piccolo ma che lascia letteralmente a bocca aperta.
Quello che si sviluppa sulle pareti del ciclo affrescato è uno spaccato genuino e vivace di vita borghese, un racconto per immagini dell'esaltazione dei valori della festa e della sagra paesana, degli usi e costumi di un villaggio dove si incontrano gli affari del mercato, delle osterie e delle locande, ma anche i lavori della fattorie e le insidie dei boschi.
Il tutto inserito pienamente nel contesto politico e storico che vede la famiglia Perabò in stretto contatto con le grandi dinastie europee del tempo degli Asburgo.
Le architetture dipinte, che incorniciano le aperture delle finestre con modanature e volute, vengono coinvolte in un gioco illusivo tra ambiente reale e dipinto, e mirano ad introdurre fisicamente alle vedute di paesaggio rappresentate, trasformando la sala in uno spazio luminoso dal quale lo sguardo può spaziare, scoprendo scene che ritraggono il mondo cortese e quello popolare del nord Europa.
Per un ciclo di affreschi di questo tipo non si può parlare di un solo maestro, impegnato nella decorazione della stanza, ma di un gruppo, di una squadra ben collaudata.
Dal primo piano, la scena si articola portando ai livelli
(Ph. Alberto Lavit)
intermedi dello spazio dove la narrazione prosegue per concludersi sulla linea dell'orizzonte.
Compare lo spillatore di birra, intento a riempire l'ennesima brocca sotto una botola-tettoia utile a mantenere fresche le bevande.
Più in là, attorno ad un piccolo tavolo, un medico vestito in pompa magna estrae un dente ad un ingenuo paziente che, nel frattempo, viene derubato da una donna.
Si prosegue con la scena del matrimonio, celebrato sul sagrato, e con la ricca carrellata dedicata al banchetto, alla festa e ai giochi, alla musica e all'amore.
Quelle di Varese sono scene gustose che compongono un centone artistico di episodi paesani, tipico di un'arte alternativa, licenziosa, dove non mancano accenni ad una satira sballata, che oggi potremmo dire "di fronda".
Il mondo del villaggio viene rappresentato dagli artisti con simpatia o almeno con interesse: l'universo rustico e quello cortigiano possono convivere e trovare qualche punto di sintesi.
Feste, mercati e duelli si danno la mano, scena dopo scena, tra botteghe, abitazioni e architetture tipiche del nord Europa che arrivano sino ai piedi delle azzurre colline.
Sulle altre due pareti sfilano i nobili impegnati nella caccia: fanti e cavalieri inseguono gli animali selvatici per i boschi e lungo il corso del fiume.
C'è chi, nascosto tra le fronde degli alberi, è pronto a sferrare il colpo di archibugio, chi su una piccola imbarcazione raggiunge il cervo ferito a morte, mentre cavalieri e nobiluomini ostentano insegne e coraggio.
Il tema venatorio è presente tante volte in terra prealpina: se la scena della caccia alla lepre con i levrieri è presente nel Castello di Monteruzzo a Castiglione Olona, a Villa Clerici di Velate compare la scena di una battuta di caccia al cinghiale.