Varese – Giovanni Giudici nasce in Liguria nel 1924. Nasce in un luogo governato dal ritmo della natura, dove la vita si svolge in una condizione di assoluta lentezza. Il Giudici bambino vive bene anche se con poco, orfano di madre, nelle sue poesie si sente spesso come l’abbia segnato il fatto che il padre fosse sempre rincorso dai creditori. La miseria, la situazione economicamente precaria della famiglia, lo spingono a desiderare qualcosa di più, una vita in cui non avrebbero avuto debiti, in cui potevano avere non solo quello che era necessario ma anche tutto ciò che è superfluo ma che ci fa vivere meglio. E proprio questo è stato uno dei motivi per cui ad un certo punto Giudici decide di lasciare il suo paese, la sua piccola casa in campagna, le sue abitudini e di trasferirsi a Milano. Qui cambia la storia, perchè a quella dell’uomo si aggiunge quella del poeta. Giudici si ritrova quindi nella Milano dello sviluppo industriale, nel centro nevralgico di questo sviluppo. La vita qui si svolge seguendo un ritmo diverso, che non è più quello della natura ma quello della fabbrica. Un ritmo che Giudici chiamerà alienante. Alienante rispetto alla realtà, ed è semplice capirne il motivo soprattutto attraverso la lettura di quegli autori che erano contemporanei a Giudici e che con lui condividevano idee e ribellioni. Volponi, ad esempio, ci spiega come l’ingresso nella fabbrica aveva qualcosa di inquietante e questo sentimento gli proveniva dall’enorme orologio che scandiva il passare di ogni minuto, di ogni ora, di ogni momento lavorativo. Le ore di quell’orologio non passavano allo stesso modo di quelle al di fuori delle mura della fabbrica e, una volta uscito, si trovava spaesato perché la gente camminava, parlava, viveva, ad un altro ritmo. La fabbrica quindi faceva perdere a questi scrittori, ma non solo a loro, il contatto con la realtà.
Torniamo a Milano, Milano è la città delle luci, dei rumori, della gente che cammina sempre di fretta. Il poeta descrive spesso quello che vede all’interno delle sue poesie raccontandoci lo stupore, l’agitazione, la paura.
Giudici è quindi a Milano e qui fa un doppio lavoro, il primo è quello del poeta, che però non gli permette di vivere e quindi è costretto a lavorare anche nella fabbrica.
Nella sua testa si mischiano nostalgia e senso di colpa. Nostalgia della sua vita passata, del suo essere un bambino spensierato nella campagna, senza troppi impegni, senza troppa fretta, anche senza troppi soldi è vero ma come si stava bene, anche senza una bella casa, anche senza andare al cinema, anche senza fermarsi al caffè. Dall’altra parte il senso di colpa, questo era molto forte e lo sentiamo all’interno delle sue poesie, un senso di colpa dato dal suo essere un poeta, un uomo che non ci stava e che scriveva tutto il brutto e tutto il male di questo nuovo modo di vivere ma che, nel frattempo, faceva tutti i giorni esattamente quello contro cui combatteva. Ed essendo Giudici, prima che un poeta, un uomo, man mano che lavorava si rendeva conto di avere sempre più desiderio di ottenere quei beni superflui che solo grazie al suo lavoro in fabbrica poteva ottenere. Questo desiderio è il colmo del senso di colpa, quel momento in cui Giudici smette di considerarsi un poeta eletto che comprende l’alienazione della fabbrica e la combatte e inizia a considerarsi un lavoratore della fabbrica, come tutti, come nessuno.
In realtà Giudici non è mai stato un semplice lavoratore, era un intellettuale e questo gli permetteva di avere cariche diverse all’interno della fabbrica di quelle del semplice operaio. Aveva la possibilità di fare da mediatore tra i padroni e i dipendenti, vedeva gli uni e gli altri, ascoltava i lavoratori e comunicava con i padroni. Il suo lavoro era quello che oggi definiremmo pubbliche relazioni, all’interno della fabbrica aveva il compito di fare i colloqui per i nuovi assunti e di classificare tutti i lavoratori secondo particolari criteri, di ascoltarli e promettere che avrebbe trasmesso le loro lamentele affinchè li ascoltassero e li aiutassero. Tutto questo non aiuta il povero Giudici che vorrebbe soltanto eliminare il meccanismo per cui ormai la fabbrica si sostituisce alla vita.
Giudici dice: “io tornavo a casa e scrivevo, scrivevo poesie per tornare nella realtà, scrivere non era una scelta, era necessario”
Scrivere per questi autori non è un vezzo, una presunzione, non possono proprio farne a meno se non vogliono impazzire rimanendo incastrati nella fabbrica. Ed ecco quindi che il Giudici Uomo e il Giudici Poeta si mischiano, di giorno il Giudici Uomo vive e di notte il Giudici Poeta scrive quello che ha vissuto, e porta avanti la sua ribellione.
Veronica Pagin