Non ha voluto vantare ascendenze professionalmente utili; né tantomeno il fatto che l'attività di famiglia le abbia nel recente passato dato la possibilità di mettersi a contatto con l'artista scelto per la tesi, con la sua opera, con autorità del campo come Sgarbi; ha preferito una sorta di basso profilo, di un anonimato normale, come si conviene e come è nelle disponibilità di quasi i laureandi. Eileen Ghiggini, figlia di cotanto padre, ha scelto di laurearsi su Vittorio Tavernari. Una scelta su cui ha influito, e non poco, l'emozione provata lo scorso anno quando lo scultore venne omaggiato nella galleria di famiglia, nell'ambito del Premio Chiara. "Vittorio Tavernari, 1944-1951", tesi conclusiva del triennio di Scienze dei Beni Culturali, presso l'Università Cattolica, relatore Francesco Tedeschi, correlatore Luciano Caramel.
Eileen, hai scelto Tavernari; ma il Tavernari degli anni giovanili. Come nasce l'idea?
"Volevo un artista di Varese, per focalizzare l'attenzione sul territorio. Normalmente i relatori consigliano agli studenti di affrontare non un lavoro monografico, piuttosto una sezione di un argomento, nel caso di un artista, un periodo circoscritto. Tavernari, poi, è artista noto e studiato abbondamente: focalizzarsi su un periodo era oltremodo necessario".
Perché quel periodo e non altri che forse hanno fatto maggiormente la storia della scultore?
"Mi interessava esattamente quel periodo di sperimentazione e di attivismo dell'artista. Quando medita e lavora sul figurativo, per poi avvicinarsi all'astratto, fino a rendersi conto nel breve periodo, di dover tornare ancora alla figurazione. Una cerchia di anni in cui Tavernari dimostra coerenza e coraggio".
Coraggio nel tornare al figurativo?
"E' come se avesse fatto un tentativo verso il linguaggio che in quel momento stava prendendo piede, basti pensare all'ovvio riferimento di Moore; per poi avere la prontezza e appunto il coraggio di riconoscere che quel modo di esprimersi non gli apparteneva davvero, in profondità".
Come si è svolto il lavoro?
"Sono partita da una introduzione in cui ho descritto il clima formativo di Tavernari, i suoi rapporti giovanili con Morlotti, ad esempio, i suoi primi anni varesini. Ho soprattutto analizzato il vasto apparato bibliografico sull'artista coevo al periodo da me scelto e quello successivo e ne ho dedotto che in molti casi che le riletture più tarde, non hanno aggiunto più di quanto già detto".
Hai lavorato sui confronti con altri artisti?
"In realtà no, perché non mi sentivo pronta a fare un lavoro del genere. E' stato anche un motivo di discussione con il mio relatore che avrebbe preferito indagassi in quella direzione. Ma da cocciuta quale sono, ho preferito seguire quello che mi sentivo di fare. Cioè far emergere la dimensione dell'artista dal suo lavoro specifico e da quello che ha lasciato nei testi. In particolare ruotando intorno ad una frase «io non voglio dettare, voglio solo esprimermi»; secondo me è la sintesi del fatto che pur essendo un artista colto, consapevole del suo tempo, cercasse in fondo una sua verità".
Torniamo a quel transito momentaneo dall'astratto al figurativo.
"Tavernari non è mai stato convinto di certe forme estetizzanti, in fondo sterili. «Anche il soggetto più visto – diceva – più utilizzato, può tornare ad esprimere qualcosa di nuovo». Questo credeva. Fosse rimasto nel territorio dell'astratto forse la sua fama si sarebbe accresciuta, più di quanto non si sia affermato, ma probabilmente non sarebbe stato fedele a se stesso. E questa autenticità mi è piaciuta".
Quanto ha contato in te il fatto di aver lavorato nella galleria di tuo padre alla mostra dello scorso anno dedicata a Tavernari?
"Molto. Quell'esperienza mi ha entusiasmato, mi ha permesso di conoscere materiali che mi sono stati utili; la stessa intervista con Piero Chiara che è stata diffusa durante la mostra, ad esempio, così come del resto le esperienze di Romano Oldrini e di Luigi Piatti. Utilissima poi la possibilità di accedere all'archivio Tavernari gestito dalla famiglia".
E di Vittorio Sgarbi che ha scritto e parlato di Tavernari in quell'occasione?
"Lo avevo citato in una nota al testo. Ma il suo intervento era effettivamente un po' vago, sia in catalogo che nella sua 'lezione' in Provincia. Anche Tedeschi ha convenuto che in un lavoro di studio quel rimando non fosse strettamente necessario".
I tuoi professori sapevano chi eri e delle tue precedenti esperienze?
"L'hanno scoperto all'ultimo, non ho voluto dire nulla".