Kathmandu mi ha stupito spiazzante ancora una volta attraverso gli occhi allegri della mia guida per il trekking, un ragazzo che avrà avuto dieci anni in meno di me. Mi raccontava della sua casa, distrutta COMPLETAMENTE dal terremoto, l’anno scorso, della palizzata di bambù dove ora vive con la moglie, i due figli e il padre anziano. Mi mostrava le foto, sul suo cellulare rigato, a colori sbiaditi, indicando con il dito quello che ora non c’è più. Nonostante la drammaticità della narrazione sorrideva e ci prendeva persino in giro, quando il sentiero a gradoni di pietra si faceva verticale e noi stavamo per arrenderci, stremati dalla fatica, mentre lui saltellava allegramente tra i sassi con tutta l’aria nei polmoni che noi non potremmo avere.
Interagire con la casualità delle cose. Accettare i venti gli eventi gli elementi naturali, anche quelli contrari. Nel nostro mondo non siamo capaci. Per noi deve essere tutto programmato, registrato, nuovo, intatto sempre coerente.
Qui invece devi imparare a convivere con i frammenti, con quel che rimane, con la grandezza delle anime che sostituisce il peso specifico delle cose. Imparare a confrontarti con il cielo e con il fango. Uomini che scavano a mani nude nella terra rossa, humus primordiale da cui la vita può solo rinascere tra esistenze disgregate, rovine ammassate e donne che trasportano carriole di pietre ININTERROTTAMENTE per ricostruire gli Occhi del Buddha, sulla sommità di Boudhanath quello che era lo Stupa più alto del mondo. “Sarà pronto per la fine dell’anno!” mi dicono ma io sgrano gli occhi, constatando che preparano il cemento mescolando la calce soltanto con i piedi.
E’ una città con fragili vertebre di legno pronta sempre a tremare, spesso a cadere. Terra che si frantuma contro altra terra, roccia che si sgretola, perché la Natura quel giorno ha voluto così, perché l’uomo impari ad osservare bene dove è meglio ricostruire. Oppure perché_non lo sappiamo.
Non è così scontato che l’armonia del Pianeta, apparentemente immutabile, perduri per sempre. Dobbiamo capirla, per proteggerla, per conservarla: avere un passo leggero sulla Terra: i nostri figli ne avranno ancora bisogno. Come noi ne abbiamo ora. Radici e ali. Il resto è gravità. Il villaggio dove arriviamo, dopo un giorno e mezzo di cammino, è ormai è la proiezione ortogonale di se stesso: tutti i piani si intersecano, i pilastri sono accartocciati, le linee scompigliate, le prospettive scompaginate come se un Picasso crudele e spietato fosse passato di qui, per caso, un giorno a disegnare le sue scomposizioni.
L’hotel dove alloggiamo è per metà sventrato. L’altra parte, quella ancora in piedi, non ha più le finestre e naturalmente, nemmeno l’acqua corrente. Decidiamo ugualmente di passare la notte qui, anche se non ci sono coperte sufficienti e ci si lava con i secchi, per cercare di aiutare, con qualche rupìa, la povera famiglia che lo possiede ancora. Sono premurosi e dispiaciuti quasi fosse loro la colpa del sisma.
I bambini giocano nel cortile, come tutti i bambini del mondo e si accendono di gioia quando porgo loro le penne colorate avanzate, portate dall’Italia. La loro mamma mi ringrazia con un inchino profondo e sincero che non potrò dimenticare facilmente.3
Kathmandu, Nepal, 23 aprile 2016