Treville – Per raggiungere Mario Surbone, lasciate le sponde del Ticino imbocchiamo l’autostrada in direzione Genova con uscita prevista a Casale Sud e liberati dalle monotone cadenze del navigatore, il percorso si snoda in morbidi scenari declinanti colline tracciate da ricamati vigneti accanto ad alberi da frutta sino ad arrivare con meravigliata lentezza dove non è possibile procedere oltre poiché la strada compie la sua essenza nel comune di Treville, dove Mario Surbone, onorando il suo paese natale si rifugia durante i mesi estivi staccandosi temporaneamente da Torino, sua città d’adozione, dove sin dagli anni giovanili ha sede, oltre all’abitazione, anche il suo studio.
Sulla terrazza panoramica, luogo dell’appuntamento, lo sguardo si apre a 360 gradi su più valli in un vero e proprio cinemascope.
Con cordiale garbo il Maestro ci invita a visitare la Collezione Permanente dedicata alle sue opere quale atto di riconoscente apprezzamento da parte del Comune nei confronti del suo illustre figlio e della sua ricerca artistica di levatura internazionale.
Dal primo lavoro eseguito a soli 14 anni, a dimostrazione di precoce propensione per le arti figurative, l’esposizione si snoda scandendo le tappe più significative di una ricerca pittorica costantemente definita da un ben distinto rigore esecutivo e concettuale.
Il tragitto che porta dalla Collezione Permanente all’abitazione offre di nuovo incantevoli scorci panoramici, dopodiché ci accoglie l’ombreggiata quiete di un ampio cortile quale spazio intermedio tra l’abitazione dove Surbone è nato nel 1932 e l’ampio studio pulsante di opere finite accanto ad altre in attesa di risolutivo compimento.
Seduti all’aperto attorno ad un tavolo in ferro battuto che di quel luogo ne è risonanza naturale, diamo inizio alla nostra conversazione.
Lei in Accademia ha avuto come docente Felice Casorati, quanto tale incontro è stato formativo e in seguito in che misura ha dovuto liberarsi di quell’insegnamento al fine di intraprendere una propria autonoma ricerca?
«È stato un grande artista ed è stato sicuramente formativo. Al mattino passava tra noi sette o otto allievi, allora si era in pochi, guardava i nostri lavori e dava un giudizio su quanto avevamo fatto, limitandosi in molte occasioni ad affermare “Non c’è malaccio”. Non sono mai stato casoratiano, mentre facilmente chi era stato suo allievo ha sentito forte la sua influenza».
Lei in gioventù è stato per alcuni anni a Parigi e inoltre ha vissuto la Torino degli anni ’60. Che ricordi ha di quei periodi?
«Devo ammettere che a Parigi non ho sfruttato possibilità espositive, però ero molto amico di Licata con il quale ho condiviso formative esperienze intellettuali, inoltre ho dipinto molto, più di cento quadri e sotto questo aspetto quel periodo è stato positivo. Negli anni ‘60 Torino ha vissuto un notevole fervore culturale, tra artisti esistevano rapporti di amicizia, ci si frequentava con assiduità, mentre ora ho l’impressione che i giovani vivano singolarmente le loro esperienze artistiche».
La prima personale è come il primo amore, non si scorda mai, è stata allestita alla galleria Il Canale a Venezia nel 1962.
«Si era interessato Licata poiché era veneziano, ricordo che ero molto emozionato». Liberando un sorriso prosegue «Rivista nel tempo la mostra era composta da una serie di lavori che forse era meglio buttare, ma allora ero giovane ed era difficile giudicare lucidamente. L’aveva vista anche Peggy Guggenheim, era arrivata con la sua gondola, ha visto la mostra e se ne è andata senza esprimere alcun giudizio» Afferma di nuovo sorridendo «Era venuto anche Vedova e aveva apprezzato un quadro che conservo ancora».
Osservando il suo periodo informale ho trovato i suoi lavori pervasi da liricità e raffinatezza formale convincendomi che se avesse protratto tale ricerca nel tempo avrebbe potuto raggiungere sviluppi ancora più alti, ha l’impressione di avere perduto una eventuale opportunità?
«Sono alcuni mesi che sto facendo l’elenco dei miei errori” racconta divertito “E non sono ancora arrivato alla fine. Uno di questi è stato di non avere mai fatto calcoli su quello che facevo e sugli eventuali sviluppi futuri. Ho lavorato sempre e solo in funzione di quello che percepivo.
I lavori che facevo erano il mio diario erano quello che sentivo dentro. Riguardo alla domanda specifica, non mi sono mai chiesto se quello che producevo in quel periodo avrebbe potuto avere nel tempo utili sviluppi, probabilmente ad un certo punto ho sentito la necessità di purificarmi e sono arrivato a concepire gli Incisi».
Lei ha eseguito anche acrilici su legno mettendo in atto un differente rapporto rispetto alla tela.
«Il legno mi permetteva di non fare sentire la superficie sulla quale il colore veniva posato e inoltre mi dava la possibilità di tagliare le forme come volevo, cosa molto complicata e difficile con altri materiali».
Gli Incisi sono stati influenzati, se pur coi debiti distinguo dai tagli di Fontana?
«Ho amato tantissimo Fontana, ma voglio chiarire come, pur usando a mia volta il taglierino, i miei Incisi non hanno nulla a che fare con Fontana, per due ragioni: la prima è che lui era un gestuale, certo calcolato e non casuale, in secondo luogo io ho sempre progettato i miei lavori partendo da una struttura geometrica che disegnavo su carta».
Muovere la superficie, in che misura è stata una opportunità e in che misura una sfida?
«Non ho mai pensato a questo, la superficie mossa aveva valore di bassorilievo».
Pur non usando la matita, bensì il taglierino, di questa ne ha fatto percepire l’idea di linea e di ombreggiatura.
«Effettivamente il segno l’ho sempre ottenuto con il taglierino, facendo risultare la superficie animata da segni e ombre».
Si può affermare che gli Incisi costituiscono un perfetto equilibrio tra conscio e inconscio?
«Si, un artista dovrebbe essere cosciente di quello che fa, però nello stesso tempo esiste una componente quasi ingovernabile. Forse la mia parte inconscia è maggiormente risultata nei lavori successivi, in una serie di schizzi eseguiti su carta, in quei casi è emerso qualcosa che andava al di la della semplice percezione visiva».
Prima di congedarci, Surbone ci invita a visitare la sua collezione privata, frutto di scambi con amici artisti di levatura nazionale e internazionale, in un percorso che occupa tutte le pareti dell’abitazione.
Accompagnandoci alla macchina per i saluti ci rivolge, con naturale signorilità, un buon rientro e l’invito a ritornare.
Mauro Bianchini
Mario Surbone è nato a Treville Monferrato nel 1932. Compie la sua formazione artistica presso il Liceo Artistico di Torino e in seguito all’Accademia Albertina dove è allievo di Felice Casorati. Nel 1958 esordisce alla Mostra nazionale d’Arte Giovanile a Roma, mentre la sua prima personale si svolge alla galleria Il Canale di Venezia nel 1962. Tra la fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ‘60 trascorre un periodo di studi a Parigi.
In quegli anni attua una definizione sempre più rarefatta della figura umana passando, alla fine del 1960 all’uso di materiali di differente natura. Esplora in seguito le possibilità espressive di superfici monocrome arrivando a concepire il ciclo degli Incisi. A conclusione di tale cicli a partire dagli anni ’80 procede con interventi pittorici su supporti sagomati sconvolgendo la logica ordinata dello spazio. Le nuove opere indagano relazioni con la natura sia sotto l’aspetto simbolico che verso quello significante. Surbone è stato coinvolto in numerose e importanti personali e collettive in Italia e all’estero con testi accompagnati da autorevoli critici e storici dell’arte.