L'arte onesta – "Non esiste arte buona o arte cattiva. La discriminante è l'onestà. Così la pittura. Credo che ci sia una pittura onesta e un'altra che lo è di meno. Non credo ai cambiamenti repentini, ai salti improvvisi, alle giravolte".
Dall'alto della sua olimpica sicilianità ostentata orgogliosamente anche nell'arte, a dispetto delle apparenze, Giovanni La Rosa vive la sua linea continua, coerente con atteggiamento appagato e soddisfatto di aver trovato una sua piccola verità.
Siciliano atipico – La sua fortuna e insieme sfortuna è stata quella di essere naturalmente dotato e vocato ad una pittura segnica, decorativa, minuziosa. Quella fortuna che lo ha portato, giovane studente, a collaborare come illustratore per il giornale L'Ora di Palermo. La stessa fortuna che lo ha fatto scegliere, unico nelle scuole d'arte palermitane, come responsabile della comunicazione e dell'immagine per una ditta di abbigliamento che voleva esattamente quel tipo di talento per creare una propria linea. La sua sfortuna è quella di uscire dalla Sicilia di Guttuso, rinnegando quella figura di padreterno. Con tutto un altro bagaglio.
Pazienza antica – "E' la vecchia scuola di una volta. Ci impartivano lezioni di manualità. Di tecnica antica, dalla preparazione delle colle a base di pelle di coniglio e alla preparazione dei colori dalle polveri. Poi avevo davanti a me i straordinari complessi musivi di Monreale. Allora non li si capiva perfettamente ma io rimanevo incantato a guardarne la tecnica". La tecnica e la pazienza che ancora oggi squaderna nei suoi certosini lavori, fatti di antica preparazione con colori ceramici, la routinante quotidianità con il pennino e la china nera, con il segno della matita.
L'ingombro dei padri – Fin dalle sue prime manifestazioni pubbliche la sua arte provoca perplessità: "Non la si comprendeva, tutti a cercare un appiglio letterario, figurativo che non c'era. In questo la Sicilia ma anche Varese, dove mi sono trasferito a partire dagli anni sessanta, erano uguali". Nell'isola c'era l'handicap di un monumento ingombrante come la pittura di Guttuso e la iconografia classica della pittura siciliana. Qui a Varese l'handicap era…lo stesso Guttuso che pontificava. "Ma anche la pittura lombarda, quella varesina, i De Bernardi, i Montanari. In questo senso Innocente Salvini era terribilmente più avanti di loro".
Il rifugio nella difficoltà – La Rosa è sempre fuggito da quel tipo di pittura. "Di più, ero ostile, polemico. La trovavo banale; in alcuni casi sembravano opere che davvero un mediocre studente la potesse fare. Non cercavo la facilità. Ho sempre pensato che l'arte sia trovare una piccola verità che però sia tua, personale. E per me ha significato anche rifugiarsi nella fatica e nella difficoltà tecnica del mio operare".
L'indecifrabilità – Un lavoro costante quello dell'artista nativo di Caccamo, che richiede calma, concentrazione, precisione e rigore. Un piccolo errore significa buttare via tutto: tempo, fatica, la tela su cui sta lavorando. "Ma questa è la cosa che mi da soddisfazione. In particolare nell'avvicinarmi al mistero, lavorare intorno ad una forma di cui oggi non conosciamo più il significato, ma che un tempo doveva averlo avuto, come nei segni rupestri. La bellezza della forma e la sua indecifrabilità".
Un luogo dove stare – A Villa Morotti a Daverio, ci sarà anche lui, insieme agli amici di sempre. "Mi è sempre piaciuto condividere con altri artisti il momento espositivo. Trovo che sia più stimolante anche per il pubblico, che è messo di fronte a personalità differenti o a personalità affini ma arrivate a soluzioni diverse". La condivisione gli è sempre sembrata naturale, nell'ordine delle cose. Fin dai tempi in cui, giovanotto non faceva altro che parlare d'arte con i compagni. Ecco perché, se c'è una cosa che gli manca davvero, anche oggi che è nonno, anche oggi che è appagato, è un luogo dove poter chiaccherare, tra amici. Magari in galleria, magari un'osteria. Come era il Cantinone, tra una bevuta e una mano di scopa con Piero Chiara o Cochi e Renato.