Le opere di Amleto Emery sono affascinanti, coinvolgenti e capaci di ispirare.
La vita di Amleto Emery è stata piena d’arte, ma anche di sofferenza.
Il complesso intreccio della forte pulsione artistica con una realtà tanto faticosa, ha dato vita a un percorso creativo che trasporta l’osservatore in un mondo di forme, colori e percezioni intense.
Nato a Monza nel 1923 Emery ha studiato pittura e decorazione all’Istituto “Paolo Borsa” alla Villa Reale di Monza, quindi ha iniziato a presentare il suo lavoro in diverse mostre e gallerie.
Dopo aver vissuto a Milano e a Vigevano, arriva a Gallarate.
Ma nel ’76 la sua vita cambia improvvisamente a causa di una forte depressione.
Ettore Ceriani, tra i fondatori dell’Associazione Amici Emery, che dal 2014 rivaluta criticamente l’opera dell’artista e ne mantiene vivo il ricordo organizzando mostre come questa delle Fornaci Ibis e donazioni a musei, ben racconta il dolore e lo spaesamento che la malattia portò nella vita di Emery. Tratteggia una terribile esperienza che ci sarebbe più facile immaginare in secoli bui e lontani.
«Ha fatto 10 anni di internamento, – ricorda – dentro-fuori, dentro-fuori, nell’Ospedale Psichiatrico di Bizzozzero. Emery aveva una depressione fortissima che hanno scambiato per un esaurimento e hanno curato come tale. E allora gli dicevano: “ mangia, che se no non va bene!”, “non ho voglia” e giù botte. “Mangia”, “no” e allora elettroshock. E’ andata proprio così. Lo portavano fuori, poi lo riportavano dentro. Finché, un giorno, nel 1986, chiamano la moglie e le dicono: “Ormai non c’è più niente da fare, è già una settimana che non mangia. Lo porti via, è meglio che muoia a casa”».
«Lei l’ha portato a casa e ha cominciato ad accudirlo. Lo metteva sulla loro piccola terrazza da cui vedeva tutta la vallata fino a Varese, con il Sacro Monte e il Campo dei Fiori. Poi lo nutriva mettendo tanto parmigiano nella pastina, dandogli i biscotti Plasmon e il tè con lo zucchero. Così Emery si è rianimato un po’, allora la moglie ha avuto un’intuizione: è andata nel negozio di un’amica a Gallarate e ha comprato una scatola di gessetti ad olio. Con questi gessetti Emery dipingeva su dei piccoli cartoncini. Ha fatto delle cose di una leggerezza e di una vaporosità incredibili. Ha cominciato piano piano a risollevarsi tornando a dipingere le case a modo suo».
«A questo punto è emerso il desiderio di raccontare la sua esperienza. Mi diceva “Sai cosa significa essere internati a Bizzozero? Ci mettevano tutti in un salone e non si poteva parlare con nessuno, perché uno diceva di essere Giulio Cesare, l’altro era Napoleone, un terzo ti guardava storto. D’inverno l’unica consolazione era vedere dal finestrone, in alto, un uccellino che si posava su un filo, la luce che penetrava e, magari, la fronda di un albero”. E’ nato così in lui il desiderio di libertà, di poter dipingere questa aspirazione con il colore, con quella luce che gli era mancata per tanti anni».
Il linguaggio pittorico dei Emery, che prima aveva indagato la tematica della città, muta e si evolve assumendo nuove forme dopo l’esperienza dell’internamento. L’artista dipinge ora seguendo “il segno dell’anima”, come lui stesso definisce la nuova espressione artistica in cui, secondo le parole di Ceriani, “sposa lo spirito umanistico del suo lavoro con esisti espressivi di assoluta modernità”.
E’ l’inizio del ciclo dei lavori denominati “Spazio Luce” in cui l’artista, con personalissima originalità, il suo “linguaggio dell’anima”, dà vita a “dipinti bidimensionali di registro astratto nei quali luce e colore si compenetrano originando un naturalismo cosmico di pretta origine emotiva” (E.Ceriani).
«Mi sono interessato quasi per caso a questo ciclo di opere, sette o otto anni fa, – racconta Massimo Conconi, critico d’arte e restauratore – quando Ettore Ceriani mi chiese di restaurarle e rintelarle. Allora mi sono messo a guardarle con attenzione, scoprendo che quasi tutte hanno dietro degli appunti, delle storie e sono realizzate su carta. Infatti a un certo Emery non poteva più lavorare con l’essenza di trementina – che è tipica del colore a olio – perché aveva delle allergie spaventose, oltre che per il procedere della malattia».
«Trovo che le tele esposte in questa mostra intitolata “Spazio-Luce” abbiano molte assonanze con il Taquisme, una corrente francese di pittura astratta degli anni ’40 e ’50, che va un po’ oltre l’Informale e il suo rifiuto della forma – perché il periodo prima di queste opere era un periodo informale».
Conconi vede ancora di più: «Ci sono delle assonanze con le tessiture, con le superfici … non a caso in quegli anni a livello nazionale c’era Carla Accardi, con i suoi colori rosa… nell’ambiente gallaratese credo che Emery abbia dialogato molto con Luigi Marengo, che era un altro pittore che faceva questo tipo di operazione a cicli. “Spazio-Luce” è in effetti il penultimo ciclo di opere, perché l’ultimo periodo è stato quello della parola, in cui usava gli stampini, proprio quelli delle lettere dei bambini, e ha fatto questi grandi quadri. Poi soprattutto ha questa alternanza di colori timbrici e tonali. Trovo che in Emery ci sia una sintesi, ma anche un’accumulazione di segni. Straordinariamente, facendo alcune ricerche, ho trovato che Missoni in quegli anni stava facendo delle cravatte con degli effetti segnici di questo tipo».
Il critico ritiene che ci fosse nell’aria un’ispirazione creativa che guidava in questa direzione e si stupisce che «Nel tempo post-Ottavio Missoni la ditta di famiglia non abbia ancora guardato a Emery. Forse non ha ancora avuto occasione di vedere queste opere… C’è proprio un’accumulazione. Conoscendo quello che è successo dopo nell’arte, specialmente l’arte del computer, credo che l’artista abbia raffigurato quasi dei disturbi da tubo catodico … quelli che si vedevano sullo schermo dei vecchi televisori, prima del digitale terrestre. Probabilmente questa accumulazione o questa sintesi è stata per lui fonte di grande turbamento… In queste opere ci sono l’annullamento dello spazio e grande luce, che sono un po’ i due elementi più significativi».
Ma il male torna a colpire la vita di Emery, che scopre di avere un tumore al polmone. La malattia ha dure conseguenze sulla sua espressione artistica, come sottolinea ancora Ettore Ceriani.
«A causa della malattia non poteva dormire sdraiato. Vegliava di notte e si assopiva di giorno. Si sedeva sul divano e, mentre dormicchiava, vedeva attraverso la finestra del balcone le luci che si spegnevano all’orizzonte, il chiarore della città, l’alba che sorgeva. Da questo prendeva spunto. Emery ha cominciato realizzare delle opere molto intuitive».
«Nasce allora la fase delle cosiddette “Città immaginarie”, che hanno una storia strana. – continua Ceriani – Lui usciva raramente e vedeva crescere intorno a sé questi grandi palazzi di vetro, in cui ci si rispecchiava. Un bel giorno mi telefona Stella, che era la sua convivente, e mi chiede di accompagnarlo alle Torri di Gallarate, il centro medico. Doveva fare una visita per il polmone malato, che era il motivo per cui non poteva più dipingere sulla tela e adoperare i colori a olio. Cominciava a tossire tanto da diventare blu. Allora lo accompagnai. Quando arrivammo disse “Ma chi avrebbe potuto immaginare che ci fosse così tanta gente! Questa è come una città. Ci sono dentro tante persone che lavorano, che pensano…”. Allora è iniziato un periodo in cui ha realizzato dei lavori che non sono stati mai visti, con materiali diversi disposti in forma geometrica, ancora con tanti colori. Le chiamava “Città immaginarie”.
Sono le città che potremo scoprire grazie all’impegno dell’Associazione Amici Emery.
AMLETO EMERY. SPAZIO LUCE
Mostra a cura Associazione Amici Emery
In collaborazione con Antonio Bandirali, Massimo Conconi, Antonio Piazza, Giorgio Robustelli
Ceramiche Ibis, via delle Fornaci, Cunardo
Fino al 15 luglio
Orari: dal mercoledì al sabato 9-12/15-18, domenica 15-18. Lunedì-Martedì chiuso.
Per appuntamenti:328/7551267.
Chiara Ambrosioni