Milano – E così la “Vergine col Bambino che allatta”, una tempera su tavola trasportata su tela di centimetri 42×33 ascritta a Leonardo, è tornata un’altra volta in città dove era stata dipinta intorno al 1490 e dove, se non si vuole dar retta a talune ipotesi che la volevano a Venezia in casa Contarini o a Piacenza in Santa Maria di Campagna, rimase a lungo.
Anche in palazzi davvero prestigiosi come quello in via del Morone di Alberico XII Barbiano di Belgioioso d’Este, e poi, alla scomparsa di questo principe, in quello del suo esecutore testamentario Alberto Litta Visconti Arese. In questo palazzo a porta Vercellina la tavola fu vista e ammirata finché nel 1865 un rampollo della nobilissima famiglia decise di venderla al Museo Imperiale di San Pietroburgo. Da dove il quadro tornò nell’estate del 1990 a Milano, in Palazzo Reale, accompagnato da altri capolavori italiani di proprietà dell’Ermitage ed ora è esposto, fino al 10 febbraio 2020, nella dimora che fu di Gian Giacomo Poldi Pezzoli, ora museo, e che museo! Dimora però, senza gli spazi sterminati e fastosi del Palazzo d’Inverno affacciato sulla Neva così che la mostra “Leonardo e la Madonna Litta”, a cura di Andrea Di Lorenzo e Pietro C. Marani (catalogo di Skira), evitando saggiamente di diventare una parata d’opere del maestro, s’impernia tutta intorno a questo quadro approfondendo i problemi non lievi che esso ha sollevato e solleva ancora e documentando con tavole, disegni, incisioni, la ragguardevole fortuna incontrata negli ultimissimi anni del Quattrocento e nei primi del successivo entro l’ambiente artistico milanese dove essa dovette essere ben conosciuta e ammirata.
Chi abbia commissionato a Leonardo questa “Vergine col Bambino in seno” non è dato di sapere, ma certo non era persona dappoco considerando il sapiente e complesso studio compositivo, la cura esecutiva prestata e la preziosità delle essenze e dei pigmenti impiegati. Logico, di conseguenza, che quest’opera, pur se di dimensioni contenute, proprio da stanza, non abbia lasciato indifferente chi lavorava, fianco a fianco, nella trafficata e operosa bottega di Leonardo o chi con essa era in contatto nella Milano magnifica dei tempi di Ludovico il Moro. Ecco dunque, convogliata al Poldi Pezzoli, una scelta e non folta sfilata di tele e tavole aventi a soggetto – caro del resto alla devozione privata – la Vergine, talvolta in atto di allattare, e il Bambino, tutte opere di più o meno fedeli collaboratori o seguaci del Maestro, che trassero ispirazione dal prototipo leonardesco o variarono su di esso senza tuttavia mai raggiungere il suo alto esito. Perché? Perché nella “Madonna Litta” Leonardo mise “il pensiero, il cervello e l’animo”, come di lui scrisse Vasari, l’invenzione insomma; su questa venne a porsi l’esecuzione ad opera di un valido e fidato assistente (Giovanni Antonio Boltraffio? Più lui di Marco d’Oggiono) specializzato nel genere e sempre seguito con occhio attento e critico da Leonardo.
Oggi nessuno più crede che alla “Madonna Litta”, come del resto ad altre opere, Leonardo abbia lavorato da solo, dall’inizio alla fine. Eppure basta guardare il palpitante paesaggio di là dalle finestre ad arco e il Bambino dai ricci vibranti alla luce, intento a succhiare ingordo il latte materno, lo sguardo consapevole già volto altrove, per intendere che anche quest’opera nasceva dall’esigenza di Leonardo di imitare la natura, di cercare di reinventarla e di renderla nelle sue opere. L’abilità dei collaboratori, ben scelti e addestrati anche con assidua vicinanza, dava poi compimento ad esse in modo egregio. Come appunto accade per la Madonna Litta.
Giuseppe Pacciarotti