In sanscrito “dhyana”, in cinese “ch’an”, in giapponese “zen”: pensare, riflettere, meditare. Un millenario percorso linguistico, storico e culturale descrive come lo Zen non sia una religione né una filosofia, bensì una metodologia dello spirito, della coscienza e della mente, che può essere adottata da chiunque, in qualunque luogo e tempo.
Lo Zen è una via semplice, diretta e concreta che riporta alla realtà, un “qui e ora” dove è utile tornare appena si riesce.
Percorrendo questo sentiero, chiunque può superare i condizionamenti della vita quotidiana e abbandonarsi al presente, attimo dopo attimo, per cogliere la verità assoluta ed esistere liberamente, senza vincoli.
L’ Okunoin, il cimitero di Koyasan, mi sembra proprio il posto più appropriato per imparare lo zen.
Un’antica leggenda della scuola buddista Shingon narra che non esistono morti nell’Okunoin, ma solo degli spiriti in attesa. Secondo questa credenza Kobo Daishi, il fondatore della comunità religiosa di Koya, nato nel 774 d.C., starebbe ancora lì da qualche parte nel tempio a meditare senza dire una parola e uscirà dal suo stato solo quando Miroku, il Buddha del futuro, scenderà sulla Terra. Solo allora, tutte le anime che riposano qui avranno il privilegio di potersi incamminare al suo seguito.
Per un giapponese è un grande onore sapere che le proprie ceneri saranno conservate su questo monte. Per questo l’estensione di sepolcri ha occupato, nel corso dei secoli, l’intera collina.
Un minuscolo ponte di legno separa i due mondi, quello terreno e quello spirituale. Un inchino, qualche passo scricchiolante e si entra nella zona più sacra, un piccolo assaggio dell’aldilà.
Qui l’atmosfera cambia, l’aria si carica di misticismo. I cedri svettanti rendono quasi buio il cielo mentre il sentiero ad ampie curve sale nel bosco sempre più fitto e misterioso. La selva in molte culture è il luogo adatto per incontrare il divino.
Bisogna avere il coraggio di lasciare il percorso principale per osservare come le tombe più antiche, che ad esempio nella cristianità vengono spesso lustrate a nuovo, qui sono lasciate in balia dei muschi e la natura, con il suo dolce abbraccio, ricopre tutto ciò che l’uomo ha costruito.
Alcune statue del Buddha portano al collo un bavaglino rosso: si tratta di simboli che le madri lasciano per proteggere i loro bambini.
Ogni ponte sancisce il passaggio ad un più alto livello di sacralità ed è bene compiere un inchino a mani giunte tutte le volte che si attraversa un torrente.
In mezzo alla foresta ad un certo punto compare il Toro-do, un padiglione con mille lanterne, alcune delle quali pare starebbero bruciando senza mai spegnersi da più di novecento anni.
Rimaniamo in piedi, in silenzio di fronte a questo spettacolo. Neppure meditando per ore potremmo arrivare a svelarne il segreto ma la sua quiete ha allietato per un po’ le nostre anime di passaggio.
Usciti dal cimitero, poco più a valle ci concediamo un tè al Sainan-in Temple.
Entriamo invitati dall’insegna dell’ingresso ma ci accorgiamo subito che non si tratta di un bar, o almeno di quello che noi intendiamo con questo termine.
Per i viaggiatori un posto di ristoro deve poter permettere di sedersi l’uno di fronte all’altro per riposarsi, chiacchierare e scambiarsi opinioni. Invece qui troviamo soltanto sgabelli disposti tutti in fila davanti ad una lunga vetrata.
Al di là del il vetro un meraviglioso giardino zen fatto di ghiaia accuratamente rastrellata, alberi secolari cespugli verdissimi e acque zampillanti. Al cospetto di una visione del genere non viene spontaneo commentare, ma si sta muti a contemplare, sorseggiando il proprio tè. È stato quindi naturale disporre le sedie l’una di fianco all’altra, come a teatro. La parola al silenzio.
Ivo Stelluti, il Viaggiator Curioso,
Koyasan, Giappone,
28 aprile 2019.