Quanto di più grande e sublime l'arte italiana abbia prodotto a cavallo tra ‘400 e ‘500, trova un'armonica e unitaria compiutezza nella figura di Gaudenzio Ferrari, ormai unanimemente riconosciuto come uno dei maggiori esponenti dell'arte italiana del XVI secolo, erede degli insegnamenti di quei Leonardo, Perugino, Raffaello, che appunto hanno reso gloria all'Italia nel mondo.
Il suo nome è inscindibilmente legato alla terra natale, a Novara e Vercelli, ma egli è ampiamente attivo tra Piemonte e Lombardia, a Milano, Como, Saronno.
L'attività centrale del maestro fa capo al Sacro Monte di Varallo Sesia, a quel "gran teatro montano" fatto di 43 cappelle, voluto dai francescani a partire dal 1486 quale luogo per poter contemplare e rivivere la passione di Cristo, in luogo a un diretto pellegrinaggio a Gerusalemme.
Questo fu il primo di una serie di santuari fondati ai piedi delle Alpi come una vera e propria catena di fortini destinati a difendere la fede cristiana nelle zone più esposte al pericolo della diffusione della religione protestante. Come testimonia anche l'esempio del Sacro Monte di Varese, questi percorsi devozionali ebbero grande fortuna (fino al Seicento) poiché favorirono una religiosità realistica e comunicativa e risposero ad un gusto artistico molto vivo, dove architettura, scultura e pittura erano coinvolte insieme nella ricerca di forme sempre più espressive.
Ai pellegrini era infatti concesso di entrare nelle cappelle e camminare fra i personaggi, immergendosi in modo fortemente emotivo nell'evento sacro; gli episodi, presentati come viventi e contemporanei al fedele, coinvolgevano i pellegrini e non li limitavano alla pura contemplazione.
La cappella della Crocifissione di Varallo è stata definita da Giovanni Testori "La Sistina delle montagne" per quelle immagini che riflettono «Le cose; le figure; i visi; i bambini giocondi e bellissimi; i signorotti opimi; i cani; i cavalli; i cavalieri; le madri; le ragazze; i giovani; gli stendardi; le carni tenere, rosa; quelle tese e gonfie per troppa, vitale maturità; le barbe bianche; le capigliature così celesti, così "paradiso", da sembrar aureole… E tutto dato come nell'amplitudine d'un respiro che differenzia e accomuna.
Cuori che battono; apprensioni; paure; ingorde alterigie; menti appannate dal troppo avere; spaventi; orrori; presagi; improvvise tristezze; malinconie. E quel riflettersi, in tutti, dell'agonia di chi muore e dello strazio di chi assiste. […] Gli anni d'un paese; le antichità d'una valle; tempi e tempi di storia umana e dunque di sofferenza e di gioia, di letizia e di dolore».
La grandezza assoluta di Gaudenzio consiste soprattutto nell'aver dato vita ad uno straordinario spettacolo sacro in cui architettura, scultura e pittura si fondono in una simbiosi perfetta, rafforzandosi ed esplicandosi l'una nell'altra. È il trionfo di Gaudenzio come Artista a tutto tondo.
Il linguaggio gaudenziano risponde appieno alla religiosità delle confraternite che animavano la vita religiosa delle città e delle valli prealpine: l'esempio più significativo è la presenza dell'artista a Morbegno, per la pittura e la doratura della grande ancona lignea dell'Assunta, intagliata da Giovan Angelo del Maino. Seguono i grandiosi affreschi di S. Cristoforo a Vercelli (1529-34) che aprono la strada agli sviluppi manieristici dei seguaci gaudenziani, fra i quali Giovenone, Lanino, gli Oldoni.
A riprova dell'importanza attribuita al pittore il fatto che la realizzazione della pala per la cappella di Santa Corona in Santa Maria delle Grazie (oggi al Louvre), da lui affrescata nel ‘42, venne affidata nientemeno che al divino Tiziano.