In extremis – Spiace segnalarla solo adesso, quando mancano pochi giorni alla chiusura. Ma la mostra che il Pac dedica a Jan Saudek, insieme alla retrospettiva di un altro ragazzo terribile della fotografia come il newyorchese Joel Peter Witkin, anche se in extremis merita davvero una visita. Perché introduce con opere che provengono per lo più da una importante collezione privata bresciana nel mondo visionario, quasi pantagruelico, in termini di esuberanza vitale, del miglior fotografo ceko degli ultimi decenni.
Pulsioni primarie – Entrambe le mostre fanno parte di quel pacchetto investito dalle polemiche moralistico-didattico che ne hanno sconsigliato la collocazione nell'istituzionale Palazzo Reale per essere collocate nel più defilato Padiglione d'Arte Contemporanea in via Palestro; luogo più consono alle esasperazioni della modernità. In questo caso, esasperazioni visive, ossessioni più o meno lecite, ma condite da una felicissima inventiva, da una geniale combinazione di elementi compositivi e scenografici, da un vivida elaborazione di pulsioni primarie e dunque di per se stesse scandalose.
La Praga dei desideri nascosti – Soffermandoci su Saudek, in particolare. Figlio orgoglioso e ribelle dell'inverno cecoslovacco del dopoguerra, indifferente, sembra, all'autunno che è seguito al soffio della Primavera di Praga, operaio, autodidatta, capace di ritagliarsi un suo mondo underground nell'umido della sua cantina. Quel muro umido e scrostato che diventerà esattamente la sua cifra, il suo luogo, la sua Praga nascosta, anche ora che, ormai una star a livello mondiale, può permettersi studi ben arieggiati e con vista, e un sito internet che sembra quello di una multinazionale. E' la Praga teatrale, abitata da uomini e, in prevalenza, donne che raccontano, come raramente altri fotografi hanno saputo fare, la contiguità della sessualità, del desiderio, della repulsione, del sogno, della maternità, della paternità e di ogni altra emozione che possa congiungere due anime, oltreché due corpi.
Fuori dal tempo – Per raccontare questo teatro Saudek si serve del bianco e nero, inizialmente. Poi, con la vocazione dello scenografo, scopre il colore con cui riveste di toni acidi le sue stampe, non prima di averle tutte retrodatate esattamente di un secolo rispetto alla loro data effettiva di realizzazione. Uno tra i tanti escamotage per attirare fuori da realistiche connotazioni spazio-temporali il suo lavoro. Che ha per protagoniste le donne, bambine, giovani, mature, anziane, per lo più svestite, spesso gravide, tutte liricamente in posa libera, provocante, sfrontata. L'unico uomo è lui Saudek stesso, anche lui messo a nudo, una nudità scolpita, scultorea, quasi da contraltare al variegato universo femminile e alla fragilità scarmigliata dell'infanzia.
C'è sempre un motivo – Da piccolo sopravvisse all'esperienza dei lager, dove la sua famiglia venne rinchiusa, mangiando erba e dentifricio. Di quell'esperienza claustrofobica, qualcosa certamente è rimasto. Non tanto in quell'ambientazione sotto il livello della strada; piuttosto nella presenza anche in questo caso ossessiva di una finestra che si apre sul cielo. C'è sempre un motivo: per uscire con lo sguardo o fisicamente da quella apertura sulle nuvole, per sognare un passo di danza nudo con la donna grassona, per interrogare un bambino curioso, per immaginarsi una vita più a misura di palpiti ed emozioni.