Dopo quasi vent’anni di guerra contro gli Ostrogoti, i Bizantini non hanno più voglia di combattere, ma sarebbe meglio dire che non ne hanno più le forze. La vittoria contro quei barbari che, non dimentichiamolo, loro stessi avevano mandato a prendersi l’Italia è la classica vittoria di Pirro, che non porta alcun beneficio a chi la ottiene.
Ecco perché i Romani d’Oriente preferiscono stringere accordi con i Franchi, piuttosto che scontrarsi con loro, nella convinzione che, sventata la minaccia da occidente e da settentrione, la Penisola possa, almeno per qualche tempo, dormire sonni tranquilli e provare a riprendersi dalle disastrose condizioni in cui loro stessi hanno contribuito a farla cadere.
Come spesso accade nella Storia, però, quando ti prepari e aspetti che il nemico arrivi da una parte, lui arriva dall’altra. Le Alpi non vengono varcate da Nord, ma da Est, e non da parte dei Franchi, ma da un’altra etnia germanica: i Longobardi.
Il giorno di Pasqua del 568 d.C., dopo un tanto solenne quanto poco credibile, perlomeno dal punto di vista della fede, battesimo di massa, re Alboino conduce il suo popolo alla conquista dell’Italia. Qualche cinico osservatore, nel constatare l’opportunismo politico di una simile scelta, potrebbe definire il sovrano longobardo come il primo democristiano della Storia; ma qualcun altro potrebbe d’altro canto obiettare che tale ruolo andrebbe assegnato di diritto all’imperatore Costantino e alla croce usata come vessillo in battaglia.
Lasciando da parte questi paragoni, proviamo a vedere com’è composto il seguito di Alboino.
Con lui non ci sono solo arimanni, ovvero uomini liberi in grado di portare armi, ma anche aldii (i semiliberi), servi, schiavi e parecchi appartenenti ad altre tribù alleate o sottomesse, come i Sassoni o i Bulgari, tanto per citarne un paio. E non vengono da single, per una breve scampagnata: al seguito si portano donne, bambini e bagagli.
In tutto arrivano forse a duecentomila anime, che per i tempi moderni possono sembrare poche, ma che in un Paese quasi spopolato, com’era allora il nostro, sono un’enormità.
Intendono restare. Forse per sempre, anche se, prima di lasciare la Pannonia (corrispondente all’incirca all’attuale Ungheria) agli Avari, con cui la coabitano, avrebbero detto: «Teneteci caldo il posto, perché se non ci troviamo bene, tempo qualche annetto, e torniamo.» E quelli avrebbero risposto: «Sì, certo, come no? Contateci pure.»
Anche sulla credibilità di questo patto, così come su quella del battesimo di massa, ci sarebbe molto da discutere: non dimentichiamo infatti che gli Avari sono diretti parenti degli Unni e fino ad ora si sono rivelati alleati scomodi per i Longobardi.
Vale la pena spendere qualche parola in più su questo popolo, non fosse altro per il fatto che per oltre due secoli occuperà la nostra regione, regalandole oltretutto il suo attuale nome: Lombardia, da Langobardia appunto.
Provenienti dalla Scandinavia, i Winnili, così allora si facevano chiamare, all’inizio dell’età imperiale occupano le terre comprese a nord della Germania, tra l’Elba e il Reno. Devono il loro nome definitivo, secondo alcuni, alle loro lunghe barbe, confuse coi lunghi capelli, che facevano crescere ai lati della testa e radevano sulla nuca. Secondo altri, invece, il termine deriverebbe da Langbart, che in antico germanico significa lunga lancia, arma della quale facevano largo uso.
Per trecento anni di loro non si hanno notizie.
Ricompaiono nel V secolo, nelle zone comprese appunto tra la Pannonia e il Norico, dove sconfiggono altre potenti tribù germaniche, come quella degli Eruli, di cui abbiamo già parlato e del cui favoloso tesoro si impadroniscono; o dei Gepidi, il cui ultimo re, Cunimondo, viene ucciso proprio da Alboino, che ne sposa la figlia, Rosmunda.
Sorvoliamo sulla celeberrima leggenda, che vede il re longobardo costringere la moglie a brindare nel cranio svuotato del padre, e limitiamoci ai fatti.
Alboino in pratica non incontra resistenza, né da parte dei Bizantini, né tanto meno da parte delle popolazioni locali. A Cividale, allora Forum Iulii, insedia il nipote Gisulfo, che diventa il primo Duca del nuovo regno, e poi dilaga senza sforzo in tutta la pianura padana, fino a Mediolanum e oltre: solo Ticinum (oggi Pavia) gli resiste.
Lasciamo il nostro re ad assediare la città e a spingersi oltre, fino ad arrivare in Piemonte, perché per noi è tempo di tornare, in provincia di Varese.
Dopo essersi impadroniti di Mediolanum e aver fatto fare i bagagli al vescovo, che si rifugia a Genova dai Bizantini, è lecito pensare che i Longobardi si spingano più a Nord, fino a metter subito piede dalle nostre parti?
Forse sì. Ma forse anche no.
A questo punto dobbiamo ritirare in ballo la fortezza di Castelseprio, già parte in epoca tardo romana di una linea difensiva, che andava da Como fino a Novara, e sotto la cui ala protettrice rientrava con tutta probabilità anche il nostro paese.
Il suo castrum è già stato devastato da quell’incendio, di cui abbiamo parlato a proposito della guerra gotica, oppure è proprio durante l’invasione longobarda che avviene la sua distruzione? O magari è stato già riparato e rimesso in funzione? E in questo caso, chi sono gli occupanti?
I Bizantini, ci verrebbe da rispondere; ma potrebbero anche essere dei Goti passati al soldo di Costantinopoli, che ora non avrebbero problemi ad aprire le porte ai Longobardi, loro “fratelli” di stirpe germanica, con i quali hanno parecchie cose in comune, comprese certe somiglianze linguistiche.
Sono tutte domande destinate a restare senza risposta, in attesa che scavi più approfonditi nel sito archeologico – che giusto dieci anni fa è divenuto patrimonio dell’UNESCO – ci aiutino a far luce.
Una cosa però è certa: la resistenza bizantina, dalle valli bergamasche, passando per il basso Lario, il Verbano, fino a raggiungere la Val d’Ossola, va avanti per parecchi anni. A guidarla è tale Francione, un nome che ci rimanda ai Franchi, dai quali forse discende e ai quali forse ancora appartiene, pur essendo al servizio dell’Impero Romano d’Oriente. Fatto sta che costui svolge con tanta diligenza e perseveranza il proprio lavoro, che il presidio dei Graeculi sull’Isola Comacina, sul lago di Como, resisterà fino al 588, cioè vent’anni dopo la calata dei Longobardi nella nostra Penisola. Nel frattempo Alboino è calato nella tomba da un pezzo, così come la presunta mandante del suo assassinio, la moglie Rosmunda, e il di lei complice Elmichi.
In questo ventennio, dunque, il nostro è un territorio di confine, in balia di vecchi e nuovi padroni, mentre Mediolanum perde molta della sua già esigua importanza a favore di Ticinum, che assurge a capitale del nuovo regno.
Nel 590 Costantinopoli decide di giocare le sue ultime carte per riprendersi il Nord Italia e si allea coi Franchi, che valicano per la terza volta le Alpi (un’altra “visitina” ce l’avevano fatta nel 576) e aggrediscono i Longobardi, spesso incapaci di difendersi in campo aperto, ma ormai al sicuro all’interno delle loro fortezze, quasi sempre ereditate dai Romani e tutte collocate in punti altamente strategici. Il castrum di Sibrium (Castelseprio) è una di queste e, come la maggior parte delle sue sorelle, resiste ai nemici, i quali però, come sovente accade in casi del genere, non mancano di rifarsi, saccheggiando i territori circostanti: il nostro non fa eccezione.
Il previsto ricongiungimento delle forze franche provenienti da nord, che arrivano fino alle porte di Verona, con quelle bizantine provenienti da sud, che conquistano addirittura Mantova, non avviene. La singolare alleanza si sfalda ancora prima di essere completata, grazie non solo alla strenua resistenza longobarda, ma anche all’incapacità degli aggressori di saper sostenere lunghi assedi e al rapido diffondersi di malattie e pestilenze tra le truppe.
Costantinopoli rinuncia così per sempre a mettere le mani sulla parte settentrionale della pianura padana e tra Franchi e Longobardi comincia un lungo periodo di pace, che, a parte qualche episodio isolato, durerà quasi un secolo e mezzo e che porterà vantaggi a entrambi i popoli. Si pensi per esempio a re Liutprando, che agli inizi dell’ottavo secolo fornirà un aiuto determinante a Carlo Martello nel respingere la minaccia araba.
Purtroppo però le cose non fileranno lisce fino alla fine, come vedremo nel prossimo capitolo, e l’epilogo sarà ben diverso.
Nel frattempo, per chi volesse approfondire gli argomenti, consigliamo alcuni testi.
“Historia Langobardorum” di Paolo Diacono;
“Storia dei Longobardi” di Jörg Jarnut (Piccola Biblioteca Einaudi);
“I Longobardi – Dalle origini mitiche alla caduta del Regno d’Italia” di Nicola Bergamo (LEG edizioni);
“I Longobardi e la guerra” Autori Vari (Viella)