Fino alla fine di luglio sarà possibile ammirare le opere di Vincenzo Lo Sasso e Ivano Sossella negli splendidi spazi, immensi e aerei, della Fondazione Sangregorio Giancarlo di Sesto Calende. La mostra – una sintesi di opposti – intitolata “La presente assenza”, è stata curata da Emanuele Beluffi con la direzione artistica di Angelo Crespi.
L’introduzione di Francesca Marcellini – Presidente della Fondazione:
«Ci troviamo nella casa Sangregorio, oggi Fondazione: è lo spazio dove è vissuto lo scultore Sangregorio, dal finire degli anni ‘50 al 2013, anno della sua scomparsa; è stata creata nel 2011 dallo stesso scultore. La Fondazione ha l’intento di valorizzare tutta la sua opera, tutto il corpus di sculture e collezioni. Infatti, come si può vedere, è stato anche un gran collezionista: soprattutto di arti primitive; le raccolte primitive di Sangregorio sono tra le tre più importanti di Regione Lombardia e a livello nazionale».
Ivano Sossella – artista etereo e poetico – racconta cosa significa fare arte:
«L’arte offre la possibilità di creare qualcosa, attraverso un percorso poetico e fuori dal quotidiano, semplicemente perché non ha il mito del risultato. Ogni opera d’arte, in realtà come ogni poesia, è la possibilità di una poesia: non crea un senso di compiutezza ma un percorso, un’indicazione; se la segui ti ci perdi. Il cuore pulsante dell’arte è la possibilità che avvenga qualcosa: possibilità concreta quanto il fatto. In qualche modo è la filosofia del percorso che supera la filosofia della meta. Nel mio lavoro agisco enfaticamente, come è enfatica qualsiasi espressione poetica perché tende a creare delle bolle su qualcosa che non c’è, su una possibilità d’arte comunque sempre non compiuta. Non è il mito della compiutezza, del lavoro non finito, del lavoro cancellato della memoria ma della possibilità. Proporre dei piedistalli che gettano un’ombra artefatta, visivamente pittorica, non realistica, magari anche brutta, offre una possibilità artistica: il cuore. Non dimentichiamoci che, per essere un po’ post-romantici, Michelangelo toglieva via il marmo in eccesso, rivelando una possibilità di scultura dall’interno: l’effetto radiografico del pensiero; questo è il percorso di ricerca. Poi, da un lavoro all’altro si scelgono itinerari diversi, si sperimenta, si fa qualsiasi cosa, però il filo rosso che seguo da anni è questo: cercare di mettere in luce, di mettere in scena l’arte, non come fatto ma come possibilità. Perché essa esiste non in base alla compiutezza: si cadrebbe nel mito dell’arte finita, dell’ultimo quadro che azzera il precedente; no, ogni quadro apre alla possibilità di un altro quadro, smarrendo magari la possibilità di se stesso».
Vincenzo Lo Sasso – attraverso la materia – descrive l’arte di elevare lo spirito:
«Il marmo è una delle parti che regolano la mia produzione artistica che è piuttosto varia: dalla fotografia, alla pittura ad olio o metallo su metallo, ma l’amore per il marmo è il fatto più appagante; per la qualità del materiale, delle possibilità che offre nella manipolazione. Non sono soggetti figurativi perché tutto quello che è stato espresso nel figurativo ha raggiunto dei livelli talmente alti nella storia dell’uomo. Non potrei mettermi in contrapposizione con degli artisti che hanno segnato la storia dell’arte da questo punto di vista. Mi ritengo un uomo del 2019, mi faccio influenzare dalle forme e questo delinea tutta l’opera artistica, facilitato da questo tipo di materiale che è il palissandro rosa dell’Ossola: un materiale molto ricco di venature e di colorazioni. Viene quasi automatico farsi trasportare dalla materia e seguire la materia come un mero esecutore materiale. È la natura che comanda, è la pietra che comanda ed io mi reputo un piccolo esecutore di quelle che sono le volontà della pietra e di quello che lei mi comunica.
L’arte è una parola di aggregazione di qualsiasi volontà umana nell’esprimere qualcosa: tutti dovrebbero applicarsi a qualcosa di creativo che crei emozioni negli esseri umani; ogni essere umano dovrebbe provare a dipingere, disegnare, scolpire, cantare, usare strumenti musicali, qualunque cosa che elevi lo spirito e permetta di avere contatti più profondi con gli esseri umani. L’abitudine alle cose non deve determinare per forza una professione poiché queste ultime vengono determinate da qualità maggiori: fortune, applicazione e tanto lavoro; un luogo comune da sfatare è che l’artista vaghi nelle sue peregrinazioni mentali e poi si svegli ogni tanto e faccia un colpetto di qualcosa per creare delle cose. In realtà è una vita durissima: la faccio da oltre 40 anni con un’applicazione quotidiana, dalle sei del mattino a orari che non ci sono, finchè non si terminano le cose e non si ha la percezione di aver concluso. Grande rispetto per chi diventa artista di professione, ma grande rispetto, per ogni essere umano, che porta se stesso ad applicarsi su qualsiasi cosa sia creativo, per migliorare noi e gli altri».
Daniela Gulino